Mikhail Khodorkovsky è stato intervistato nella rubrica “Lunch with the FT” dal giornalista esperto di cose russe Neil Buckley, membro fondatore del Valdai Club e di casa sia al Cremlino che nelle composite elites russe. L’intervista non è casuale e fa parte di quella sorta di offensiva mediatica scatenata non tanto dai nemici di Putin, ma da Putin stesso per creare come un velo mediatico tra la sua azione e le sanzioni che sono state scatenate contro la Russia. L’intervista, tuttavia, è molto importante e rimarrà tale anche in futuro, perché tra i due uomini intimamente legati all’establishment russo – pur se con esiti personali completamente diversi – si svolge un dialogo molto utile per comprendere quale sia la posta in gioco oggi in Russia a partire dalla storia di quel grande Paese euro-asiatico.
È vero che Khodorkovsky termina la sua intervista dicendo, in sostanza, che la sua sicurezza dipende dalle decisioni di un uomo solo, ma nel contempo, guidato dall’accortissimo Buckley, lancia dei chiari messaggi su quale sia l’essenza stessa della questione nazionale e internazionale russa. Infatti, Buckley interroga Khodorkovsky sul famoso 1995, ossia sull’anno dei famosi “loans for shares”, ovvero sullo scambio economico e politico tra uno Stato in bancarotta come era quello diretto da Eltsin, che necessitava dei prestiti che un pugno di neo oligarchi concessero in cambio di azioni allo Stato medesimo affinché tutto non crollasse.
Quei neo oligarchi erano tutti giovani ex comunisti della nomenclatura economica che si erano schierati con Eltsin e con Gorbaciov arricchendosi, prima del ‘95, essendosi impadronitisi manu politica di fatto delle immense risorse minerarie ed energetiche ex sovietiche, realizzando spettacolari guadagni, vendendo tali materie prime all’estero. Naturalmente Eltsin e i suoi uomini non riuscirono a rendere i denari agli accorti neo oligarchi e scambiarono appunto quei debiti con azioni delle potentissime aziende dei kombinat sovietici che si stavano privatizzando.
Gli oligarchi vendettero spesso anche a se stessi le azioni realizzando profitti da capogiro e avendo così nelle proprie mani, di fatto, l’intera potenza dell’ex impero. Al di là della vicenda dei rapporti tra Yukos e Rosfnet, le due potenti compagnie petrolifere che erano la prima posseduta da Khodorkovsky e la seconda dal gruppo raccolto attorno a Putin (e Khodorkovsky si rifiutò di farsi assorbire da Rosfnet finendo così nella macchina tritacarne della giustizia putiniana scontando più di dieci anni di carcere) rimane la sostanza di una verità storico generale che l’intervista disvela e che noi spesso dimentichiamo.
Eltsin, e gli oligarchi a lui legati, non avevano mai letto Tocqueville, non quello de “La democrazia in America”, ma quello straordinario de “L’antico regime e la rivoluzione”. In quel testo straordinario e incompiuto – usato a man bassa dagli storici revisionisti della Rivoluzione francese, come Furet, i quali con somma stupidità affermano che la rivoluzione francese…non è avvenuta – si documenta come, ad avvenuta rivoluzione, con le teste dei re e delle regine degli aristocratici e dei rivoluzionari che rotolavano a tutto spiano, intatto rimaneva il sistema amministrativo sia della grande burocrazia costruita dal cardinal Mazzarino, sia del mercantilismo del grande Colbert, a riprova che, se si vuole avere lo Stato, bisogna, ahimè, averne tutti gli aggeggi e i congegni idealizzati da Max Weber con il suo modello ideal-tipico razional-legale e altri sublimi facezie del genere.
In Russia quella facezia si chiamava prima Kgb, poi Fsb, ossia la parte più intelligente, colta e cosmopolita (e crudele) dell’apparato centrale russo. Questa parte dell’apparato, che era divenuto un ceto e forse anche una classe sociale, non poteva che vedere come fumo negli occhi quell’ubriacone di Eltsin e tutte le sue privatizzazioni che avevano venduto le ricchezze del Paese o agli amici degli ubriaconi o ai giovani e spregiudicati compagni del partito che a quegli ubriaconi si erano uniti per arricchire se stessi. Bisognava farla finita e l’ascesa di Putin altro non era che quello che oggi è: la riaffermazione della potenza dello Stato tecnocratico-ammnistrativo sorretto dal potere militare, dai servizi segreti e dalla potente scuola del ministero degli Affari esteri guidata da grandi personaggi come Molotov prima e Gromyko poi.
In fondo si trattava e si tratta del vecchio gruppo di potere, che continua a riprodursi, che si era opposto all’intervento in Afghanistan, e che fu sconfitto dalla burocrazia di un partito che con Breznev si era via via autonomizzato in parte da queste forze e aveva perso gran parte del suo smalto dirigenziale. La debolezza della figura di Gorbaciov, che non seppe tenere assieme ciò che poteva essere tenuto assieme dell’impero, ossia tutte le Repubbliche sovietiche liberando soltanto gli stati annessi all’Urss a partire dal patto Ribbentrop-Molotov del ‘39 per finire con gli accordi di Yalta del 1945.
L’Europa e gli Stati Uniti non hanno mai compreso questo movimento storico della Russia profonda. Le uniche forze che lo hanno compreso sono state la destra gaullista francese, com’è noto, l’astuzia brianzola di Berlusconi, e ora l’ha rapidamente capito Prodi, che si lancia infatti in uno sforzo di mediazione che ha dietro di sé l’astuzia imprenditoriale di Renzi e le pressioni di coloro che sanno senza aver mai letto Montesquieu e le sue pagine sul doux commerce che è solo continuando a scambiare merci che si ammansiscono gli orsi, così come del resto sembra abbiano recentemente imparato gli americani rispetto al gattino cubano.
L’ultimo discorso alla nazione che Putin ha fatto recentemente di fronte a 1500 giornalisti che l’hanno sommerso di domande e di critiche come mai era accaduto prima, salvo forse alla penultima riunione del famoso Valdai Club a cui anch’io partecipai, è un segno evidente dell’inizio di quella strategia mediatica cui prima ho fatto cenno. Il Valdai Club era un’istituzione nata circa un decennio fa che chiamava a raccolta poche decine di intellettuali e giornalisti per incontrare nel corso di una settimana l’elites russe e per un giorno e mezzo lo stesso Putin. Già da allora iniziò la campagna di fumo mediatico quando si improvvisò una seduta aperta anche ai dissidenti e alla non annunciata ma improvvisa partecipazione di Francois Fillon, grande neogaullista, e di Romano Prodi, annunciato come il sostituto del vecchio amico Silvio Berlusconi, impedito a partecipare per la recente condanna.
Perché racconto queste storielle? Le racconto perché è mia convinzione che da circa un paio d’anni Putin e i suoi sodali dell’ex Kgb, che hanno letto il Tocqueville giusto e che vogliono a tutti i costi ricostruire la Russia come potenza euroasiatica non solo nazionale, hanno compreso che per far ciò dovevano sfidare l’ostilità europea che cresceva nei loro confronti sia sul piano della politica energetica, sia su quello della diplomazia internazionale, per il peso che gli ex-stati, ora liberati, del Patto di Varsavia e del Comecon esercitano sugli Usa.
A mio parere Putin era già ben consapevole che si sarebbe arrivati a forme di sanzione e che esse avrebbero vieppiù indebolito non tanto e non soltanto la sua leadership ma anche il ruolo euroasiatico della Russia. Di qui la decisione sia della “guerra invisibile” in Ucraina, sia dell’annessione della Crimea. Con queste due mosse, Putin offriva la sua cooperazione, così come aveva fatto l’anno prima con l’accordo diplomatico rispetto alla Siria, sia agli Usa, sia all’Europa perché utilizzassero dinanzi a una sempre più infida Turchia la sua azione repressiva e strategica nei confronti della guerra civile islamica e della minaccia che a tutto l’Occidente veniva.
Si può discutere a lungo se la Russia sia o no Occidente. Se ne è discusso per secoli, ma ciò che non si può mettere in dubbio è che l’Eurasia sia l’incontro dell’Occidente con l’Asia e che, se ciò è vero, l’Occidente senza l’Eurasia, e cioè senza la Russia, non potrà mai opporsi sia all’ateismo asiatico a predominanza cinese, sia al fanatismo assassino a predominanza sunnita. È quello che ha capito molto bene papa Francesco, quando si è fatto baciare in capo dal Metropolita ortodosso nel corso della sua visita in Turchia, con un gesto che è senza dubbio proteso all’ecumenismo ma che ha altrettanto e senza dubbio un profondo significato politico-diplomatico, rivolto al mondo ortodosso e quindi alla terza Roma, cioè Mosca.
La diplomazia vaticana è in gran ripresa. C’è da sperare che il ruolo svolto rispetto alla questione cubana oggi i discepoli del grande cardinal Casaroli lo inizino a svolgere anche rispetto alla stolida ignoranza geostrategica della stolida tecnocrazia europea e alla tragica debolezza imperiale statunitense. Anche lì la lettura de “L’antico regime e la rivoluzione” è urgente, così da non continuare a distruggere, con o senza sanzioni economiche, stati ed equilibri di potenza.