Sabato scorso vi ho dato conto del disastro sul piano del mercato obbligazionario in cui si stava sostanziando la politica di stimolo della Bank of Japan, oggi posso dire senza troppi timori che l’Abenomics è fallita e l’economia giapponese è letteralmente implosa. D’altronde, quando un mese fa il mondo scoprì che il consigliere economico ombra del governo Abe era nientemeno che il re dei keynesiani, Paul Krugman, chiunque dotato di un minimo di buonsenso economico non poteva che giungere a questa conclusione: i dati resi noti venerdì hanno solo inchiodato la realtà al muro, dimostrando palesemente che le ricette stampa-stampa non servono a nulla se non a fare più danni della grandine.



Stando a quanto comunicato da Tokyo, infatti, non solo il tasso di inflazione core non ha rispettato le aspettative nonostante il Tesoro stia monetizzando il 100% delle emissioni lorde di debito, non solo la produzione industriale è calata dello 0,6% quando le attese erano per un livello di crescita e si è sostanziato il primo calo in tre mesi con il dato relativo allo shipment dei beni durevoli letteralmente schiantato, non solo la spesa dei consumatori è calata per l’ottavo mese di fila facendo segnare un -2,5% a novembre (con la spesa immobiliare giù del 20% e in caduta libera), ma sia i salari reali che quelli nominali sono implosi, con il dato total cash e quello delle paghe overtime che ha subito il primo calo rispettivamente da 9 e 20 mesi, come ci mostra il grafico a fondo pagina.



Non basta? C’è dell’altro, avanti con i dati. I salari reali si sono schiantati del 4,3% rispetto a un anno fa, il peggiore calo dopo il -4,8% del dicembre 1998: insomma, a livelli di consumi l’Abenomics è stata la peggior ricetta economica del XXI secolo nipponico. E ancora peggio, vista la natura di formiche che ha sempre caratterizzato i giapponesi, per la prima volta da quando vengono i tracciati i dati – ovvero dal 1955 – il tasso di risparmio è risultato negativo dell’1,3%.

E perché questo? Facile, tasse più alte sugli acquisti, leggi aumento dell’Iva, combinate proprio con la politica di stimolo della banca centrale non hanno fatto altro che far salire il costo della vita, erodendo i budget dei cittadini e facendo calare i consumi: e non lo dico io, lo conferma anche Hiromichi Shirakawa, economista presso Credit Suisse e prima proprio alla Bank of Japan, a detta del quale «i cittadini giapponesi stanno soffrendo chiaramente di un calo dei salari reali».



Ovviamente se doveste chiedere conto di questo a Krugman o ai suoi sodali italiani tanto telegenici, vi risponderebbero che il problema dei cittadini giapponesi è che stanno soffrendo di inflazione troppo bassa e poca propensione a spendere i loro risparmi, ma ormai siamo abituati a queste idiozie. Pensate che il tasso di risparmio toccò il suo picco nell’anno fiscale 1975, quando raggiunse il 23,1%: ora è negativo. Sempre i soloni difensori di Abe e delle sue scelte vi diranno che il governo nipponico la prossima primavera intende premere sugli industriali affinché accettino una politica di aumenti salariali che spinga i consumi: bene, peccato che gli ultimi dati ci dicano che in Giappone il tasso di disoccupazione sia al 3,5% e ci siano 1,12 posti di lavoro disponibili per ogni persona alla ricerca di impiego, in salita dal 1,10 di ottobre, il dato maggiore dal 1992. Un po’ dura come trattativa, non vi pare? Tanto più che le corporations, le quali stanno assistendo preoccupate al crollo dell’Abenomics, essendo entità private che devono fare i conti con la realtà del mercato, stanno già creando dei cuscinetti di capitale per quando il Frankenstein keynesiano crollerà del tutto, trascinando con sé anche l’indice Nikkei, quindi difficilmente accetteranno politiche di aumenti salariali.

E proprio sabato scorso il governo giapponese ha approvato un ulteriore pacchetto di stimolo finanziario da 3,5 triliardi di yen (29 miliardi di dollari) per cercare di tamponare il crollo dei consumi dopo la geniale intuizione dell’innalzamento dell’Iva lo scorso aprile. Le misure comprendono voucher per gli acquisti, sussidi per il riscaldamento per i più poveri e prestiti a basso interesse per le piccole imprese, un combinato che nei calcoli del governo nipponico dovrebbe far salire il Pil dello 0,7% e che verrà finanziato da maggiori entrate fiscali e da fondi a disposizione del ministero dell’Economia accantonati e non spesi, in Italia lo chiameremmo “tesoretto” ma non da emissioni di nuovo debito (che tanto verrebbe monetizzato subito dalla Bank of Japan).

Circa 1,7 triliardi di yen saranno spesi in infrastrutture pubbliche e lavori di manutenzione in aree colpite da disastri naturali e per opere di prevenzione, 600 miliardi andranno alla rivitalizzazione delle economie regionali e 1,2 triliardi al supporto di cittadini e piccole imprese: il tutto fa parte di un extra budget per l’anno fiscale che si conclude a marzo e verrà adottato dal governo il prossimo 9 gennaio, con l’approvazione del Parlamento chiaramente scontata. Insomma, Abe comincia ad aver paura che la situazione stia sfuggendo dal suo controllo. E qualcuno questo lo sa da tempo, visto che nella settimana conclusasi il 14 novembre scorso gli investitori a livello globale hanno ritirato dai fondi azionari giapponesi qualcosa come 3,8 miliardi di dollari, il più grosso outflows di capitale dal maggio 2010, stando a dati resi noti da Bank of America-Merrill Lynch Global Research, questo quando nel medesimo arco temporale i fondi azionari in generali avevano attratto inflows per 7 miliardi di dollari, gli Etf per 12 miliardi e i mutual funds su equities 5 miliardi.

E, peggio ancora, quel dato avveniva nonostante la settimana precedente l’indice Nikkei avesse chiuso al massimo da sette anni sulla speranza del rinvio di un ulteriore innalzamento dell’Iva dopo quello di aprile e dopo l’annuncio shock di ottobre della Bank of Japan di ampliare la sua politica di stimolo. Insomma, si scappa dal Giappone. E per andare dove? Negli Usa, i grandi beneficiari della crisi globale.

Nella settimana conclusasi il 24 dicembre, infatti, stando a dati della Lipper, nei fondi azionari Usa sono entrati qualcosa come 36,5 miliardi di dollari, l’inflows più alto dal 1992, quando si è cominciato a tracciare il dato: di più, se i fondi specializzati in titoli Usa hanno visto entrare 39 miliardi, quelli che invece investono in azioni non statunitensi hanno conosciuto un outflow di 2,5 miliardi di dollari. E a stimolare la domanda sono investitori sia retail che istituzionali, con i mutual funds azionari che hanno attratto 12,8 miliardi di dollari e gli Etf 23,7 miliardi di dollari: insomma, sia i grandi investitori che i piccoli puntano tutto sull’America in questo momento di riposizionamento dei portafogli di investimento. E ancora, i fondi specializzati in titoli del settore energetico hanno attratto 1,5 miliardi in quella settimana, mentre l’outflow patito da quelli specializzati su titoli giapponesi è stato di 1,5 miliardi, il più grande mai registrato e quelli specializzati in mercati emergenti hanno scontato fughe di capitali per 900 milioni, il dato più grande da 10 settimane. Guarda caso, i fondi comuni di investimenti che trattano equities a basso rischio hanno visto inflows per 17 miliardi, il maggiore da tre settimane.

Vi dicono niente tutti questi dati messi assieme? A me sì. Ovvero, primo il Giappone è sulla strada del non ritorno, chi investe per professione ha già incassato il premio grosso e ora scappa a gambe levate lasciando le speranza nell’Abenomics a Krugman e ai suoi gonzi adoranti europei. Secondo, ci sarà un rimbalzo del prezzo del petrolio, ma non troppo presto: gli inflows nei fondi su titoli energetici ci sono, ma non ancora sufficienti per determinare un arco temporale, certamente qualcuno ha già intravisto il floor della crisi e comincia a comprare a prezzo di saldo titoli che poi si apprezzeranno di nuovo nell’arco di uno-due anni massimo fino a raddoppiare l’investimento, probabilmente lasciando perdere per ora quelli legati allo shale oil. Terzo, la Fed farà un nuovo ciclo di Qe, ma prima farà spaventare tutti con un rialzo dei tassi, magari solo annunciato o minacciato ad hoc e questo lo conferma la fuga di capitali dai fondi che trattano i mercati emergenti, i primi a pagare il conto alle mosse della Federal Reserve attraverso il deprezzamento selvaggio delle loro valute e quindi l’aggravamento della loro situazione debitoria in dollari.

Quarto, in un contesto simile ritengo che eventuali decisioni della Bce al prossimo vertice del 22 gennaio non saranno comunque annunciate ufficialmente: se il Giappone grippa e il mercato comincia a scontare quel calo continuo dei tassi obbligazionari, Mario Draghi dovrebbe comprare per un ammontare pari almeno a quello della Fed per evitare che la crisi entri in una spirale recessiva. E questo è impossibile. Quinto, oggi il Parlamento greco sarà chiamato al terzo voto per l’elezione del presidente della Repubblica, quello definitivo per scongiurare l’ipotesi di elezioni anticipate da qui a un mese. Tranquilli, il governo troverà i numeri per ottenere la maggioranza semplice. Se così non fosse, allora è tutto preordinato per anticipare il caos. E anche qualche mossa: leggi, spingere Draghi ad accelerare. Oppure a dimettersi, pronto per il Quirinale.