Oggi Mario Draghi dovrà (forse) annunciare quali saranno le misure straordinarie che riterrà di essere in grado di poter mettere in atto per cercare di superare la profonda crisi di deflazione in corso. Come sempre accade, questi sono giorni di sussurri e grida, ossia di notizie dette e non dette, di dati annunciati e poi non consegnati alla pubblica opinione, di misure auspicate e mai assunte. Se parlate con gli osservatori oltre oceano, scoprirete che sono completamente attoniti dinanzi a questo comportamento, e si chiedono quanto esso possa essere compatibile con due istituzioni di fondo dell’economia capitalistica ad alta finaziarizzazione.



La prima di queste istituzioni, detta à la Veblen, è un costume, ossia un atteggiamento antropologico profondo che dovrebbe essere la norma e che ora invece è stato completamente distrutto. L’istituzione di cui parlo è il silenzio. Il silenzio che, un tempo, circondava con un’aura i banchieri centrali. Ebbene, sappiamo che dietro a Draghi c’è un rumore insopportabile. Un rumore che gozzanianamente potremmo chiamare “clangor di buccine”, ossia il fracasso quasi da ubriachi che da un lato cantano canzoni vichinghe e dall’altro suonano mandolini mediterranei: una cacofonia insopportabile.



Aggiungete a ciò il fatto che il silenzio non è stato solo abbandonato da Mario Draghi, che proprio perché ha dietro di sé questo clangor di buccine dovrebbe star chiuso come un’ostrica. Parlano anche i suoi collaboratori più fidati. Il colmo è che parlano per dire che non bisogna farsi troppe illusioni, anche se si potesse fare il Qe o l’acquisto dei titoli di stato oppure ancora degli asset securities: perbacco, queste misure non sarebbero certo sufficienti per superare la crisi! Bella scoperta! Sarà anche vero, ma non me lo devi dire.

Così facendo, invece, ossia comportandosi non come un banchiere centrale ma come un tenore che inizia dei pezzi che poi deve interrompere per afasia, si pongono sempre in fibrillazione le borse, si riempie il mondo di incertezza. Insomma, si fa tutto il contrario di ciò che bisognerebbe fare per calmare e rassicurare i cosiddetti mercati. Non mi stupirei se un giorno la Corte dell’Aia, su sollecitazione di molti cittadini europei, dovesse impegnarsi nel giudicare il danno che questi comportamenti hanno provocato e provocano nella loro vita sociale quotidiana, e non soltanto nella loro.



La seconda istituzione è proprio la Banca centrale, che tiene un atteggiamento per cui non solo sussurra e grida con i danni che ho ricordato, ma non parla di ciò di cui invece dovrebbe parlare. Ossia, la questione delle questioni che oggi è in discussione: se si debba rimanere con un solo euro o se bisogna averne due di euro, oppure ritornare alle monete nazionali come già nel 2012 pensò di fare l’Olanda con continue consultazioni con la Banca centrale tedesca. Va notato inoltre che, sempre più insistentemente, una parte dell’opinione pubblica tedesca, nazionalista quanto si vuole ma certo la più colta e preparata che oggi possa esistere in Germania, richiede di imitare il modello olandese, ossia di uscire dall’euro e dotarsi di una moneta nazionale.

Conoscere come si posiziona in questo dibattito la maggioranza della Bce sarebbe interessante, molto di più dell’udire i solito balbettii senza senso compiuto che sprofondano tutti nell’incertezza. Ma forse è chiedere troppo. La crisi della Bce del suo Presidente riflette infatti tanto la profonda crisi della leadership nordamericana, quanto il crescere inarrestabile di una volontà che sinteticamente definiamo di anti-euro nel seno stesso, profondo, dell’anima teutonica. Un’anima che non abbraccia solo la Germania.