Sfogliando il 48° rapporto Censis, presentato ieri nella sede romana del Cnel, ci si imbatte in termini mutuati dall’economia e dalla finanza; non si tratta di una concessione al gergo dei quotidiani, affollato di spread e di quantitative easing, ma di un tentativo più ampio di descrivere la società nel suo complesso. Compaiono espressioni come “capitale inagito”, che si riferisce in prima battuta all’alto tasso di liquidità raggiunto quest’anno dalle famiglie e dalle imprese italiane, indice di un contante accumulato e immobilizzato per timore di un domani incerto; ma che passa poi a significare anche la dissipazione dei talenti nazionali che non si traducono in energia lavorativa – almeno otto milioni di individui che finiscono a ingrossare le file dei disoccupati, degli inattivi oppure dei lavoratori sottoinquadrati. Un fenomeno che non riguarda soltanto, come ci si aspetterebbe, i laureati in discipline umanistiche, spesso considerati meno immediatamente spendibili, ma anche ingegneri, economisti e statistici.



Naturale, a questo punto, che tra gli italiani sia meno diffusa che altrove l’opinione che per farsi strada nella vita siano necessarie buona istruzione, duro lavoro e intelligenza. Circa la prima, solo il 51% dei nostri compatrioti la cita tra i fattori critici di successo, contro l’82% della Germania; mentre il lavoro sodo è importante per il 43% degli italiani, contro il 74% degli inglesi. Per non parlare dell’intelligenza, che raccoglie solo il 7% dei consensi, il valore più basso di tutta l’Unione europea. Ancora, capitale inagito è per il Censis il nostro patrimonio culturale nazionale, che invece di produrre ricchezza e impiego si ferma a un valore significativamente inferiore rispetto ad altri paesi europei, e coinvolge solo poco più di trecentomila lavoratori.



Più che alle pagine economiche dei quotidiani, la mente torna alla parabola dei talenti, alla necessità di farli fruttare, di investirli liberandosi dalla paura che spingerebbe a nasconderli. De Rita ricorda che il frate francescano Bernardino da Feltre, ben prima di Marx e Weber, parla di capitale come “moneta movimentata”: la ricchezza è tale solo se circola, se si muove generando altro movimento, invece di essere reificata in un’accumulazione sterile. Questa circolazione oggi manca: la deflazione, altro termine familiare agli economisti, è ormai prossima a diventare una categoria dello spirito, uno stallo delle aspettative che paralizza il desiderio, vero motore della crescita in tutti i sensi.



L’intera società italiana è frammentata in “giare”, mondi chiusi in se stessi, non comunicanti, che “sobbollono” solo nel proprio circuito interno. Il Censis ne ha contati sette. Anzitutto, i poteri sopranazionali, come la finanza internazionale, che si manifesta ormai solo come minaccia, o le autorità comunitarie, lontane e ostili, che registrano il minimo storico di fiducia dei cittadini. 

A seguire, la politica nazionale, che pur dichiarando di mirare al rilancio non riesce a oltrepassare i propri confini, producendo lo stallo delle riforme necessarie. E poi le istituzioni, che hanno fatto l’Italia e oggi sopravvivono a se stesse tra cerchi magici e consulenze esterne: impossibile a questo punto non ricordare che la presentazione si svolge nella sede del Cnel, uno dei principali sponsor del rapporto, che già dal prossimo anno potrebbe non esserci più (il vicepresidente Acocella si incarica, in apertura, di un saluto “puramente formale”, forse l’ultimo prima della liquidazione dell’ente, da cui traspare tutto il disappunto).

Andando avanti, sono una “giara” le minoranze dei piccoli e medi imprenditori, che sarebbero potuti diventare la neo borghesia ma hanno preferito far prevalere il loro “gene egoista”. Un’altra è rappresentata dalla “gente del quotidiano”, ciò che resta della cosiddetta società civile, ridotta alla rivendicazione di diritti individuali e incapace di partecipazione più ampia (l’astensionismo emiliano ne è un sintomo). Ancora, c’è la giara del sommerso, fenomeno ormai strutturale, che non può essere solo etichettato moralisticamente, ma rappresenta il “riferimento adattativo” di milioni di italiani”. Infine, la giara dei media, che conoscono forti meccanismi di interazione, ma solo interna, preda di un’autoreferenzialità certificata dal crollo degli ascolti dei talk show, e ben rappresentata dalla pratica del “selfie” (chissà se a qualcuno dalle parti di Palazzo Chigi fischiano le orecchie…).

Ma come rimettere in moto il nostro Paese? Nulla può essere movimentato, afferma De Rita, se non si sa verso dove: la politica deve riprendere a orientare la vita pubblica. Abbiamo quindi bisogno di politica: non di gestione del potere, che rischia di trasformarsi in autoritarismo, ma di ascolto e di indirizzo delle famiglie e delle imprese, che se ulteriormente lasciate a se stesse potrebbero cadere nelle capaci braccia del populismo. Solo una politica così intesa può scongiurare il pericolo del secessionismo: non quello naif di Bossi o Salvini, ma quello già in atto in comuni, province, regioni dove è già attivo di fatto un potere separato, spesso malavitoso. Ma per riuscirci, Renzi deve “uscire dalla giara”: in chiusura di presentazione, De Rita torna sul tema della disintermediazione, concetto già criticato in un suo editoriale su Il Corriere della Sera di qualche giorno fa, per precisare che il tentativo renziano di rilancio del primato della politica presuppone la capacità di uscire dal “gioco della sola politica”.

Chissà se il premier e il suo governo accoglieranno l’invito di De Rita, o se preferiranno prima scattarsi un altro selfie.