Ci è stato chiesto dai “poteri costituiti” di prendere con “spirito sportivo” la decisione dell’Unione europea di “rimandarci” alla “stagion dei fiori” (invero con Francia e Belgio) per un nuovo esame dei conti pubblici e dei progressi effettivi delle riforme. Quando il 5 dicembre Standard & Poor’s ha declassato a BBB- i nostri titoli di Stato (il gradino appena superiore a quello dei “titoli spazzatura”) ci è stato detto da compiacenti mezzi busto televisivi che le agenzie di rating sono una cricca che comunque ormai conta poco. Purtroppo, proprio il 5 dicembre, un saggio di Iftekhar Hasan della Fordham University di New York, di Suk-Joong Kim della University of Sydney e di Eliza Wu dell’University of Technology di Sidney veniva pubblicato dalla Bank of Finland (Discussion Paper n. 25/2014): in esso si afferma che le agenzie pesano molto, specialmente nella valutazione che gli operatori danno al rischio di debito sovrano (che in Italia marcia verso il 135% del Pil).



Sempre il 5 dicembre, in quella Villa Lubin tanto agognata dalla Corte dei Conti che si è posto un articolo ad hoc nella riforma della Costituzione tra breve all’esame della Camera, veniva presentata la quarantottesima edizione del Rapporto Censis il cui tema di fondo è il capitale inagito di un’Italia dove famiglie, banche e imprese sono molto liquide, ma non investono per timore del futuro (nonostante i “road show” del volenteroso Presidente del Consiglio per infondere fiducia).



Ancora il 5 dicembre, nella Sala Emeroteca della Banca d’Italia, si è svolto dalle 9 alle 18 il consueto convegno annuale di fine anno della Banca d’Italia (solo per inviti): sono stati discussi dieci lavori scientifici sul tema “l’impatto della crisi sul potenziale produttivo e sulla spesa delle famiglie” – i lavori, come spesso avviene, saranno oggetto di un volume in primavera.

C’è un forte nesso tra queste notizie: il declassamento deciso da Standard & Poor’s è la punta di un complesso iceberg denso di implicazioni (come ci ricorda la Banca centrale finlandese), il lavoro Censis ne sviscera gli aspetti sociologi, gli studi della Banca d’Italia ne esaminano quelli economici. Non è questa la sede per analizzare il Rapporto Censis o i documenti (a volte molto tecnici) presentati al convegno della Banca d’Italia. Tuttavia, il lavoro Censis mostra un’Italia delusa che si appresta a celebrare un Natale mesto. Gli studi della Banca d’Italia rappresentano un importante blocco di lavori per definire politiche a lungo termine non necessariamente in linea con quelle annunciate da Palazzo Chigi. Auguriamoci che Piazza di Priscilla (sede del Censis) e Via Nazionale (sede della Banca d’Italia) non vengano additati come covi di gufi. Invece, il Natale dovrebbe essere l’occasione per studiare e fare contrizione nei confronti del peccato capitale dell’orgoglio.



In sintesi che lezione si trae? Mutuando dal titolo di un libro di successo di Carmen Reinhart This Time is Different. Questa crisi (che riguarda una piccola parte dell’economia mondiale, l’eurozona, mentre il resto è in buona salute) è differente da quelle degli ultimi ottocento anni perché nella sua prima parte (2008-2010) ha sconvolto la finanza mondiale e nelle seconda (2012-2014) ha messo a nudo i danni, sulle strutture economiche, di un debito sovrano fuori controllo.

La lezione principale è che è urgente affrontare (specialmente in alcuni paesi europei, tra cui l’Italia è in prima fila) il debito sovrano non tanto per le risorse che assorbe in interessi passivi, ma perché blocca le politiche essenziali per tornare a crescere. O almeno per non distruggere ulteriormente l’industria manifatturiera, non aggravare la situazione delle giovani generazioni, non comprimere ancora i consumi delle famiglie a più basso reddito, non continuare ad aumentare la pressione fiscale e parafiscale complessiva (inclusa quella degli enti locali).

Dai lavori esce un messaggio forte: cambiare strada. Se si è ancora in tempo.