Subito dopo l’entrata in vigore della legge di conversione del controverso d.l. n. 133/2013 (30 gennaio 2014) il Governatore Visco e gli uffici di Bankitalia, in separate sedi (rispettivamente, il primo in conferenza stampa, i secondi mediante un comunicato apparso sul sito istituzionale dell’Istituto), ne hanno dato un’interpretazione che, se non può certo dirsi autentica, non provenendo dall’autore dell’atto, assume però particolare rilievo, in quanto propria di uno dei principali destinatari delle norme.
Val la pena di osservare, in primo luogo, che le due “voci” – almeno stando a come gli organi di stampa (v. l’articolo di S. Tamburello, pubblicato su Il Corriere della Sera del 4 febbraio 2014, p. 23) hanno riportato, per citazione testuale, le paroli di Ignazio Visco – non cantano all’unisono: mentre, infatti, il vertice di Palazzo Koch attribuisce alla riforma (anche) lo scopo di incentivare le banche quotiste a far credito alle imprese, lo scritto diffuso on-line dalla Banca centrale non fa il benché minimo cenno a una simile ratio del provvedimento d’urgenza, prima, e della legge che lo ha “ratificato”, poi.
Se così fosse, però, le questioni già sollevate su queste pagine – e non soltanto da chi scrive – non solo non sarebbero risolte, ma sarebbero vieppiù aggravate. Per un verso, infatti, tale finalità – che tuttavia, in concreto, si risolve in un wishful thinking, perché non appare alcun disposto normativo che appresti le modalità per renderne il perseguimento, se non cogente, almeno incentivato – collide con il divieto europeo di aiuti di Stato (da noi evocato ancor prima che vi facesse autorevole riferimento la Bce); per altro verso, se davvero la privatizzazione della Banca centrale fosse l’unico strumento a disposizione dello Stato italiano per sovvenire, ex art. 47 Cost., al sistema del credito (e così inducono a credere le parole del Governatore che, sempre secondo il resoconto offerto dalla stampa quotidiana, avrebbe detto che “l’Istituto centrale farà pressione sulle banche perché utilizzino il beneficio – in termini di sopravvenienze attive e di rafforzamento del patrimonio (pari in media allo 0,4% per l’intero sistema e dello 0,3% per le 15 banche maggiori) – derivante dalla riforma per fare pulizia di sofferenze e bilanci e per dare più credito”), vorrebbe dire che in sede europea si è avuto non già un conferimento di quote di sovranità, ma una vera e propria cessione senza diritto di recesso e che ormai, in luogo dell’esercizio delle corrispondenti funzioni di signoria (tra le quali rientrano ovviamente anche la garanzia del debito pubblico e il sostegno al sistema creditizio), si può solo ricorrere ad atti di disposizione patrimoniale.
Quanto alla prospettazione critica che aveva ravvisato nell’operazione che qui interessa una indebita locupletazione a vantaggio dei partecipanti al capitale – ridotta, nel lessico della Banca centrale, alla formula “un regalo alle banche” – il Governatore ha sostenuto che sarebbe infondata, perché la rivalutazione si sarebbe resa necessaria in considerazione della vetustà del valore del capitale. A ben vedere, però, non si tratta di un’esplicazione causale: nulla si dice sulla ragione di inattualità di quel valore, tantomeno avuto riguardo al lungo periodo in cui il capitale è stato (o avrebbe dovuto essere) in mano pubblica (ossia fino all’entrata in vigore del d.l. n. 133/2013) e, soprattutto, non si considera che il capitale originario proveniva da casse pubbliche, mentre le banche, una volta privatizzate, si erano indebitamente impossessate delle quote, ricavandone, per più di vent’anni, sine titulo e contra legem, ragguardevolissimi dividendi.
Ma nel comunicato di Via Nazionale ci si spinge addirittura oltre, sostenendo che, mentre la legittimazione della titolarità privata del capitale di Bankitalia garantirebbe a essa autonomia e indipendenza, qualora si fosse data attuazione alla l. n. 262/2005 – che, come si ricorderà, imponeva il trasferimento delle quote ad enti pubblici – lo Stato avrebbe dovuto “indennizzare i partecipanti, i quali vantavano diritti legalmente protetti”, con grave esborso a carico dell’erario: l’asserzione è erronea, perché, come si è avuto modo di argomentatamente illustrare, dal 1936 e sino al 30 novembre 2013 (data di entrata in vigore del d.l. n. 133/2013) nessun soggetto privato poteva essere titolare delle partecipazioni in questione. Per parte sua, Ignazio Visco ha poi aggiunto che il modello prescelto è quello – si cita sempre dal Corsera del 4 febbraio scorso – “privatistico dell’azionariato ma non si tratta di una privatizzazione”.
Ora, oltre a prendere atto che, infine, anche l’Istituto centrale, per mezzo del suo vertice, ammette che si è fatto luogo a una privatizzazione, non può che stigmatizzarsi il verbiage dell’affermazione e della negazione: il capitale è in mano privata e per quanto la legge continui ad affermare che la Banca d’Italia è istituto di diritto pubblico, resta da spiegare cosa ciò significhi e, in particolare – esclusa, per ora, l’ipotesi di una nomopoietica che, come Caligola, voglia far senatori i cavalli – se ciò implichi che funzioni pubbliche di rilievo apicale (e, anzi, sovrano) siano ormai stabilmente confidate a soggetti privati.
Non bastano a escluderlo né la qualificazione normativa – che dev’essere letta alla luce (anche) dei disposti concernenti la proprietà del capitale e l’organizzazione dell’Istituto – né la formula, posta nell’incipit del comunicato di Via Nazionale, che la Banca centrale “era e resta un istituto di diritto pubblico, che svolge funzioni pubbliche su cui nessun soggetto privato mai ha potuto, né mai potrà, esercitare alcuna influenza. Su questo i Trattati europei e le norme italiane sono tassativi, lo erano in passato, lo rimangono oggi”: se i Trattati impongono la natura pubblica di Bankitalia, la l. n. 5/2014 vi si pone in contrasto, perché alla proprietà privata delle quote corrispondono poteri dei partecipanti tutt’altro che secondari, anche ove non direttamente riferiti all’esercizio delle funzioni affidate alla Banca centrale; mentre se è vero, com’è vero, che prima della legge citata il nostro ordinamento imponeva “tassativamente” che l’Istituto fosse pubblico, resta confermato che, per più di venti anni, esso è stato in mano a soggetti non legittimati.
Lo speech del Governatore e, in parallelo, il comunicato ribadiscono inoltre l’assunto che la rivalutazione del capitale non avrebbe comportato alcun costo a carico della collettività, che, però, è smentito da quanto entrambi affermano, che cioè le risorse a tal fine necessarie sono state tratte dalle riserve statutarie, le quali sono frutto – il punto era stato sottolineato dallo stesso Visco – di attività di diritto pubblico e, quindi, di pertinenza dominicale dello Stato.
Vi è stato quindi un sicuro depauperamento delle casse pubbliche: l’affermazione – che si legge nel comunicato – secondo cui la somma di capitale e riserve resta immutata è vera, ma non prova affatto quel che vorrebbe la Banca centrale, ossia la “gratuità” dell’operazione per lo Stato e per i contribuenti. Manca, infatti, un particolare, tuttavia essenziale a fini giuridici, cioè la considerazione della modificazione apportata all’imputazione giuridica sia del capitale, sia di una parte delle riserve!
Né miglior sorte tocca alla sintetica illustrazione, predisposta dagli uffici di Bankitalia, delle modalità con le quali è stato calcolato il presunto valore attuale del capitale. E non solo perché, quale che sia il metodo, resta il fatto (di essenziale rilievo in iure, come si è appena detto) che le riserve portate a capitale erano (e non sono più) dello Stato. Merita segnalare altresì che il criterio seguito è diversamente definito nel testo elaborato dalla commissione di esperti a suo tempo nominata dalla Banca d’Italia e in quello del comunicato diffuso qualche giorno fa: nel primo si legge che “il valore delle quote della Banca è stato determinato utilizzando un Dividend Discount Model (DDM) al fine di stimare il valore attuale netto del flusso dei dividendi futuri che saranno percepiti dai partecipanti in base all’attuale disciplina (quella cioè previgente, n.d.r.)”; nel secondo si dice, viceversa, che “il capitale della Banca viene rivalutato a 7,5 miliardi, secondo un criterio che tiene conto del flusso storico di dividendi pagati e della sua evoluzione nel tempo”. Sarebbe (stata) auspicabile maggior chiarezza, ma pare di comprendere che, in definitiva, si sia fatto luogo a una sorta di capitalizzazione dei dividendi che – in ipotesi, trattandosi, come espone la nota di Via Nazionale, di redditi per loro natura incerti (ma, pur non potendosi qui tornare sul punto, sono molti i dubbi, anche autorevolmente sollevati, circa l’effettiva natura giuridica di tali dividendi) – sarebbero spettati ai quotisti negli anni a venire: il meno che si possa dire è che, in tal guisa, è stato sottratto ogni elemento di alea a una fonte di reddito alla quale essa è viceversa consustanziale, con la conseguenza, peraltro, non solo di accrescere l’ammontare dei dividendi futuri (dato l’aumento della base sulla quale si effettua il calcolo percentuale), ma altresì di diminuire, corrispondentemente, le spettanze dello Stato, che ammontano al residuo di quanto distribuito ai quotisti.
A quest’ultimo proposito, l’argomentazione utilizzata nel comunicato sconfina nel paralogismo, lì dove, a pretesa smentita di tale paventata diminuzione dei proventi erariali, si sostiene che essa non si avrebbe, tra l’altro, perché è venuto meno, con la medesima riforma, l’obbligo di utilizzare ogni anno il rendimento delle riserve statutarie per incrementare le stesse: “Con il nuovo statuto questa alimentazione automatica delle riserve è stata eliminata, in modo da poter meglio commisurare l’entità delle riserve all’evoluzione dei rischi dell’Istituto. Ne potrà derivare un ampliamento dell’utile di esercizio che alimenterà la retrocessione allo Stato”. Ognun vede che tale asserzione non resiste alla prova del principio di non contraddizione, atteso che le riserve statutarie, stando alle rassicurazioni più volte fornite proprio da Bankitalia e soprattutto dal Governatore in sede di audizione parlamentare, comprendono i proventi dell’attività pubblica, esercitata dall’Istituto centrale in regime di monopolio, “il cui ultimo beneficiario – per usare le testuali parole di Ignazio Visco – non può essere che lo Stato”.
Quanto poi all’assenza, in capo ai partecipanti, di poteri di influenza sull’azione della Banca d’Italia – alla quale ha fatto riferimento il Governatore in sede di conferenza stampa – essa continua a essere predicata e nient’affatto dimostrata, mentre non sembra congruente né con le prerogative dominicali dei quotisti, né con i loro poteri attinenti ad aspetti essenziali dell’organizzazione e del funzionamento dell’Istituto, né, soprattutto, con lo scopo che si è detto di voler attingere con la riforma, consistente nella più alta garanzia di autonomia e di indipendenza della Banca centrale: obiettivo certamente raggiunto quando via Nazionale era in mano pubblica e per il quale sono disponibili utili modelli di altri paesi europei, ove la presenza, addirittura diretta, dello Stato nel capitale dell’ente di emissione (Francia, ad esempio, ma anche, sebbene con diversa articolazione, Belgio) non risulta abbia sollevato alcun problema, neppure per quanto concerne la rispondenza agli standard del Sebc.
Ultimo, ma non postremo, il cenno di Visco al patrimonio e alle riserve in oro. Il Governatore ha testualmente affermato che “l’oro è di proprietà della Banca d’Italia, non è degli azionisti ma del Paese, serve a sostenere le attività istituzionali – monetaria e di stabilità finanziaria – ed è custodito nei caveau di Via Nazionale, in Svizzera, nel Regno Unito e negli Usa”: per quanto si voglia apprezzare lo sforzo del vertice di Palazzo Koch di fornire rassicurazioni su un aspetto cruciale della vita nazionale – pur dopo l’eloquente rifiuto del Governo di far proprio un o.d.g. presentato alla Camera e volto proprio nel senso additato da Visco – balzano agli occhi le incongruenze dell’asserzione.
Se davvero l’oro fosse di Bankitalia – lo si afferma in effetti nell’ultima relazione di bilancio, evocando, ma senza indicarla, una legge che così disporrebbe – su di esso vanterebbero legittimi diritti i partecipanti al capitale della persona giuridica, a meno che – ma non è purtroppo questo il nostro caso – una norma non prevedesse la separazione almeno di questa parte del patrimonio, coerentemente qualificando il titolo in forza del quale esse sono affidate all’Istituto centrale (la Banque de France, ad eempio, “detiene” [art. L. 141-2 dello Statuto: “la Banque de France détient et gére les réserves de change de l’État en or et en devises et les inscrit à l’actif de son bilan selon des modalités précisées dans une convention qu’elle conclut avec l’État], in senso proprio e tecnico, l’oro dei francesi).
In difetto, dunque, di specifiche disposizioni nel senso appena visto – e tali non sono quelle che limitano i diritti patrimoniali dei quotisti nei confronti dell’Istituto (che, a ben vedere, ricalcano il modello civilistico delle azioni ordinarie delle società per azioni) – nulla impedisce ai partecipanti di valorizzare le proprie quote, sia nei propri bilanci, sia nelle negoziazioni che le abbiano a oggetto, tenendo conto dell’elemento patrimoniale costituito dalle riserve auree.
Profilo, questo, che meriterebbe ogni possibile attenzione (e non solo da parte dell’Istituto centrale!), tanto più in rapporto alla contemporanea celebrazione, in Germania, del processo costituzionale che, stando al provvedimento non definitivo assunto di recente dal Tribunale costituzionale federale, potrebbe condurre alla declaratoria di illegittimità, secondo l’ordinamento giuridico tedesco, del noto Omt deliberato dalla Bce e cioè di quell’istituto creato, per necessità, in funzione surrogatoria del potere sovrano di assicurare la copertura delle emissioni di titoli del debito pubblico (attualmente non spettante ai singoli Stati, in forza e a causa, tra l’altro, dei vincoli derivanti dalla partecipazione all’Eurosistema) che, attualmente, rappresentano l’unico mezzo diretto a disposizione degli Stati per procurarsi liquidità.
Qualora la decisione del Bundesverfassungsgericht dovesse andare in tal senso, non è peregrino immaginare che la Bce sarà tenuta a ritirare e/o annullare il proprio atto, con conseguente, molto probabile, ripresa di feroci speculazioni sul debito nazionale italiano, acuendosi pertanto ulteriormente le criticità determinate dall’abdicazione del nostro Stato alle proprie riserve auree.