Nel giorno del duello rusticano attorno alla poltrona di palazzo Chigi, arriva dalla Bce un richiamo al problema dei problemi: “Una disoccupazione giovanile alta e persistente rappresenta oggi una delle principali sfide per i responsabili delle politiche europei alla luce dei cospicui costi che ne derivano sul piano sociale ed economico”, si legge sul Bollettino economico di Francoforte che fa riferimento non solo alla disoccupazione ma a un fenomeno ben più grave: l’inattività giovanile. Anzi, alla “non partecipazione giovanile”, un fenomeno drammatico anche se “non nuovo in alcuni paesi tipo l’Italia, l’Irlanda, Cipro e Grecia”.
Per far fronte a questo flagello che minaccia la democrazia, più che la crescita economica, occorrono “misure aggiuntive, intensificando in particolare l’attuazione delle riforme strutturali”. Ma non solo. La crisi ha profondamente modificato il mercato del lavoro a livello internazionale: l’irruzione sulla scena di nuovi concorrenti tra gli Emergenti; la competizione serrata tra Stati per attrarre lavoro; i drammatici cambiamenti della domanda, legati all’avanzata della tecnologia, hanno cambiato e cambieranno sempre di più il quadro che non s’annuncia roseo, a giudicare dalle preoccupazioni delle banche centrali, ormai l’antenna più sensibile al cambiamento della realtà sociale, vista l’impotenza della politica.
Alle preoccupazioni della Bce fa riscontro l’analisi della Federal Reserve fatta da Janet Yellen al Congresso: l’economia si riprende, seppur a un tasso moderato, la disoccupazione all’apparenza scende ma non è il caso di cantar vittoria: troppi americani hanno rinunciato a cercar lavoro, come non accadeva dagli anni Trenta. A Londra, in parallelo, la Bank of England informa che la prossima sfida non sta nelle statistiche sulla disoccupazione (comunque scesa al 7% contro il 12% dell’Ue), ma nella qualità dei posti di lavoro, dopo i sensibili peggioramenti registrati negli ultimi anni.
Sarà una sfida difficilissima perché, a differenza di quel che accadeva fino a pochi anni fa, il progresso tecnologico fa sì aumentare la produttività, ma spesso a danno dei lavoratori. E l’investimento in tecnologia non sempre fa da traino a un miglioramento generale. Ecco qualche esempio tratto dalla lettura dei giornali americani in questi giorni.
A San Francisco, terra dell’hi-tech ma anche culla della controcultura americana, la città da settimane protesta con sit-in e blocchi stradali, contro i “techies”, cioè i dipendenti (35 mila in tutto) di Google, Facebook, Apple, Twitter e così via che ogni mattina, su bus superlusso (dove si può lavorare lungo il tragitto), vanno al lavoro in Silicon Valley. La ragione della protesta, si legge nelle cronache, sono gli ingorghi sulle strade. Ma, in realtà, i non pochi milionari dell’hi-tech hanno fanno saltare l’equilibrio dei prezzi della vecchia Frisco, compresi i prezzi dei locali, senza contribuire al sostenimento della città. Il comune, ansioso di attrarre dipendenti ad alto reddito, ha rinunciato a tassare Twitter abbonando all’azienda, la cui offerta pubblica in Borsa ha creato più di mille milionari tra i dipendenti, la bellezza di 76 milioni di dollari.
La sfida della fiscalità può giocare, insomma, brutti scherzi. Ecco, una notizia del Dallas News, il giornale della città del Texas, terminale dello shale gas e perciò termometro della ripresa economica; 4.000 colletti bianchi già impiegati in ditte attive a San Diego, California (patria del bio-tech), si stanno trasferendo a Dallas. Tra i motivi del trasloco spicca la questione fiscale: la California, in cui chicanos e altri immigrati hanno un peso elettorale crescente, ha aumentato la quota di Irs (diciamo il corrispondente dell’Iva) locale. Il Texas, terra natale del tea party, l’ha in pratica azzerata. Non c’è da stupirsi se chi guadagna da 200 mila dollari in su ha scoperto le virtù di Dallas o di Houston. È un segnale estremo di quella competizione tra territori, che è più che mai aspra anche in Europa.
L’hi-tech, grazie alla mobilità dei capitali, non trasferisce automaticamente benessere ai territori in cui si insedia. E si ripropongono nel frattempo problemi antichi. Martin Wolfe ricorda che, nel 1955, “il dirigente del sindacato americano dell’auto, Walter Reuther, andò a visitare il primo impianto Ford basato sui robot. Chi pagherà la quota sindacale tra questi operai, gli venne chiesto per scherzo. E chi di loro comprerà una Ford, rispose Reuther”. Il conflitto tra lavoro e tecnologia è di vecchia data, ma a differenza di quel che accadeva nella società industriale l’aumento della produttività non porta benefici a tutti i lavoratori, ma accresce le distanze tra i più esperti e i colletti bianchi, i più minacciati dall’ascesa dell’intelligenza artificiale.
È questo il problema drammatico che sta angosciando le teste d’uovo della Fed, della Bank of England e della stessa Bce: la ripresa dell’economia non sta coinvolgendo i lavoratori espulsi durante la grande crisi. Al contrario, molti posti di lavoro, anche altamente qualificati, sono a rischio. Non solo, ormai il processo tecnologico è così rapido e imprevedibile che l’intelligenza artificiale di computer e robot, oltre alle nuove funzioni di Google o Facebook (basti pensare a Uber, l’incubo dei tassisti di Milano e Parigi), rischia di metter fuori mercato anche lauree “giovani”, all’apparenza inattaccabili.
Esiste una terapia? Forse, ma non la conosciamo ancora. Due docenti, Carl Frey e Michael Osborne, stimano che il 47% degli attuali posti di lavoro è rischio. È già successo in passato, nell’Ottocento. Ma allora, in qualche maniera, la perdita dei posti di lavoro è stata compensata da nuovi mestieri. Stavolta, forse, non andrà così, almeno se l’accelerazione geometrica della tecnologia non sarà governata da una politica che la sappia indirizzare verso obiettivi condivisi (vedi l’ambiente) e offra ai cittadini occasioni per partecipare ai benefici dell’intelligenza artificiale o dell’Internet diffuso.
Come intende fare la Federal Reserve o ancor di più la Bank of England. Entrambe, in forme diverse, hanno in questi giorni alzato il tiro sul tema dell’occupazione: non basta migliorare le statistiche, sommando lavori part-time, a tempo determinato o con stipendi da fame ai “vecchi” contratti ereditati dal passato. Il tema è la qualità del lavoro, oltre alla quantità. Il che richiede l’uso energico dell’arma monetaria finché la ripresa non si trasmetterà anche ai lavoratori che non si iscrivono più nelle liste dei disoccupati, ma anche all’utilizzo della capacità produttiva e ai salari. Sapendo, però, che si viaggia verso terre incognite, perché l’Occidente deve fare i conti con una realtà in cui si guadagna meno, perché la tecnologia non trasmette i suoi aumenti di produttività ai lavoratori.
Non si tratta di assumere atteggiamenti luddisti, senza tener conto degli immensi benefici che la crescita tecnologica può portare. Ma è un fenomeno che va guidato e interpretato nel modo corretto. Per la prima volta, avverte Wolfe, l’economia del tempo libero è un elemento centrale dello sviluppo. Ma per sfruttare la voglia di turismo o di amore per il bello non basta disporre di un Bel Paese, come dimostra il declino del turismo italiano in un anno in cui tutti i Paesi del Sud Europa hanno guadagnato quote.
Il trend che investe l’Occidente riguarda anche l’Italia. È importante perciò discutere di regole del lavoro con gli occhi rivolti al futuro. Senza dimenticare l’emergenza numero uno: per creare lavoro occorrono i quattrini, necessari per rilanciare gli investimenti.