Matteo Renzi, che è un giovane sveglio, lo aveva già capito, ma nel caso gli fosse sfuggito, Frau Merkel gli ha ricordato senza mezzi termini, e certo senza nessuna buona grazia, chi comanda nella Dieta di Ratisbona alias Unione europea: “Seguiamo la crisi con grande attenzione. Il governo auspica una soluzione rapida”, ha dichiarato ieri Steffen Seibert, il portavoce della Cancelleria. Avremmo apprezzato se magari avesse aggiunto “nell’interesse degli italiani”, ma forse è chiedere troppo. La classe non è birra. In ogni caso, siccome il nuovo capo del governo è uno che va per le spicce, dovrebbe rispondere “grazie, ma questa volta facciamo da soli”. Perché quello tedesco non è un augurio sia pure goffo e rozzo, ma un vero e proprio avvertimento. Insomma: spicciatevi e poi fatte quello che vi abbiamo ordinato dal lontano 2011, tre anni nel corso dei quali la purga teutonica ha smagrito e indebolito l’organismo sociale, non solo economico, italiano.
È proprio questa la sfida che Renzi si trova davanti: una cura ricostituente, facendo capire che il deperimento, lo sfinimento del terzo Paese dell’area euro e del secondo (ancora per quanto?) manifatturiero, non è nell’interesse dell’Unione, della moneta unica e nemmeno della Germania, che pure ha contribuito, per cecità, egoismo e incapacità, a mettere in ginocchio l’Europa del sud.
Il problema non è che l’Italia o la Spagna o la Grecia non debbono percorrere la via dolorosa (almeno nel breve termine) delle riforme di struttura e del consolidamento fiscale. È che non possono farlo in un contesto di stagnazione permanente, anzi di deflazione incombente (come dimostrano gli ultimi dati sui prezzi). Enrico Letta nel dimettersi ha detto che se ne va con l’animo di chi ha visto il primo segno più nell’andamento del prodotto lordo, ma è un misero 0,1%, cioè siamo ben dentro l’errore statistico; nell’insieme, il 2013 ha registrato una caduta dell’1,9% superiore alle previsioni del governo. Dunque, la ripresa è lontana e la rimonta è tutta da preparare.
Ecco la svolta necessaria, anzi ineludibile di questo 2014, è quel che ha detto Giorgio Napolitano a Strasburgo, è quel che tutti sanno e non possono più evitare. In Olanda c’è una forza politica, il partito di Geert Wilders, che ha pagato uno studio per dimostrare come si starà meglio non senza euro, ma senza Unione europea. In Francia il Front National di Marine Le Pen è al 34%. In Italia gli euroscettici o gli anti-euro sono ancora più forti.
Il primo gesto concreto che Renzi può fare per mostrare che non si fa mettere i piedi in testa, è scegliere un ministro del Tesoro di peso. I nomi che circolano sono di economisti con un pedigree impeccabile: da Lucrezia Reichlin che la Banca d’Inghilterra vorrebbe come numero due, a Pier Carlo Padoan che dopo il Fondo monetario ha gestito il gran numerificio dell’Ocse, da Lorenzo Bini Smaghi che viene dal direttorio della Banca centrale europea a Fabrizio Barca, un Ciampi boy che ha avuto anche incarichi politici e conosce bene il ministero del quale attualmente è uno degli alti dirigenti.
Si parla anche di grandi manager come Vittorio Colao (oggi capo di Vodafone) o Andrea Guerra che gestisce Luxottica, in pole position per l’Industria. Tutte persone eccellenti, nessuno di loro può essere considerato una scelta di transizione come Fabrizio Saccomanni. Ma oggi a dirigere l’economia ci vuole una figura diversa, che conosca bene la teoria e la prassi, ma che abbia anche uno spessore politico. Un ircocervo introvabile? Chissà.
Il ministro naturalmente deve avere un buon rapporto con Mario Draghi, perché è l’uomo che batte la moneta europea, ma anche perché è un italiano protagonista da almeno un quarto di secolo delle grandi scelte economiche. Però deve anche godere di tale autorevolezza e di tale stima da poter dire chiaramente a Draghi che l’Italia non ce la fa più. O la Bce allenta la camicia di Nesso, lasciando scivolare l’euro nei confronti del dollaro (una quotazione di 1,40 è mortale per tutta l’industria europea e gli stessi tedeschi stanno scoprendo i costi del loro mercantilismo da Ancien Régime) oppure anche all’Italia deve essere consentito di violare lo “stupido” (definizione di Romano Prodi) tabù del 3%. Se Berlino dice no all’una e all’altra scappatoia, allora il governo italiano vada per la propria strada, finanziando anche in deficit gli investimenti produttivi.
Siamo alle corde e dobbiamo uscire dall’angolo. Ripetere che si può fare rilanciando le riforme di struttura è una giaculatoria menzognera, non perché non bisogna fare le riforme a cominciare da quella del lavoro (lo abbiamo scritto fino alla noia su queste pagine), ma perché esse falliranno se non saranno sostenute da una crescita della domanda interna. Lo ha scritto e dimostrato il Fondo monetario internazionale. Renzi scarichi lo studio dal sito Imf e lo consegni all’ircocervo che occuperà la stanza di Quintino Sella.
Il nuovo governo deve immediatamente rilanciare la trattativa sul Fiscal compact, applicando l’ordine del giorno votato in parlamento che impegna a tener conto dei correttivi (la ricchezza non solo il reddito nazionale, il livello di risparmio o l’economia sommersa) grazie ai quali potrebbe scendere di parecchio la tassa per tornare nei prossimi vent’anni a un debito del 60%: Silvio Berlusconi stimava che potessero essere 15 miliardi l’anno invece dei 50 previsti. Forse prevaleva in lui ancora una volta l’ottimismo della volontà, ma in ogni caso sono risorse importanti.
Il timing è fondamentale. Renzi non può aspettare il solito giro di tavola europeo alla fine del quale ci si perde nelle vetuste banalità su rigore e sviluppo. Occorre mettere sul tavolo subito le sue carte: da un lato le riforme finora rinviate e dall’altro l’allentamento dei vincoli europei (via cambio o via politica fiscale).
C’è qualcuno in questa nuova leva di politici young and hungry, come dicono gli americani, ambiziosissimi come ha detto Renzi, che ha il fegato e la capacità (intellettuale e politica insieme) di metterla giù dura, grazie a una pura e semplice operazione verità? I rischi sono molti: che parta una nuova ondata speculativa, che le banche tedesche e francesi tornino a vendere titoli italiani (anche se oggi ne hanno molti meno rispetto al 2011), che Berlino lanci una campagna di ritorsione. E via di questo passo. Dunque bisogna avere nervi saldi. E consenso interno.
Per questo, il nuovo ministro del Tesoro potrebbe convocare subito una costituente economica nazionale, con i sindacati del lavoro e del capitale, ma anche con i grandi patron delle industrie pubbliche e private (compresi John Elkann e Sergio Marchionne) presentando loro una chiara strategia per il rilancio dell’Italia. Non lunghi elenchi illeggibili, bensì poche cose da fare subito, tutti insieme. Perché, questa volta più che mai, simul stabunt vel simul cadent.