Tito Boeri? Lucrezia Reichlin? Luigi Zingales? O – più prevedibilmente – il neo-nominato presidente dell’Istat Pier Carlo Padoan, ex segretario generale dell’Ocse? Chi sarà il super-ministro economico di Matteo Renzi? Posta nei suoi termini probabilmente più corretti la questione è: chi sarà il successore di Giulio Tremonti in via XX Settembre? Sì, perché lasciando nel suo giusto empireo Carlo Azeglio Ciampi (cancelliere dello scacchiere del Prodi-1) e concedendo un meritato rimpianto a Tommaso Padoa Schioppa (Prodi-2), il benchmark del futuro inquilino di Via XX Settembre, non potrà che essere il super-ministro dei governi Berlusconi 1, 2, 4 e 5: considerando solo una breve parentesi quella di Domenico Siniscalco (dopo la mini-crisi del 2004) e rammentando che Tremonti è stato anche vicepremier e poi serio candidato alla successione del Cavaliere a Palazzo Chigi. Fin dalla primavera 1994 e per vent’anni l’autocratico premier-imprenditore calato a Roma da Arcore non ha mai rinunciato ad avare al suo fianco una figura forte: il ministero dell’Economia (nato con la Seconda Repubblica dall’accorpamento di Finanze e Tesoro) è anzi l’unico “palazzo di governo” che ha realmente mantenuto autonomia e prestigio (perfino agli Esteri hanno perso un po’ di smalto nella progressiva “premierizzazione” dell’esecutivo). Da dove ripartirà ora Renzi dopo la lunga transizione tecnocratica (Mario Monti affiancato da Vittorio Grilli e poi Fabrizio Saccomanni)?
Giulio Tremonti – oggi impegnato a riscrivere la storia del suo ventennio – è stato personaggio strutturalmente scomodo per tutti, a cominciare dal leader della sua maggioranza e fino al leader nominale del suo partito, la Lega Nord. E’ stato accusato di fare “finanza creativa”, ma l’ha fatta e la sua performance di gestore del bilancio pubblico italiano dev’essere ancora valutato con completezza. Si è scontrato con Wall Street (che nell’estate 2011 ha attaccato tecnicamente lui come tesoriere sovrano italiano), sia con il primo euro-rigorismo di marca tedesca. Si è scontrato con la Banca d’Italia di Antonio Fazio (bruscamente allontanato anche per il pressing del ministro) e poi con quella di Mario Draghi (cui il Tesoro impedì di nominare Saccomanni suo successore). Si è scontrato duramente con le Fondazioni bancarie ma anche con Mediobanca e il suo network, trovando poi equilibri costruttivi. Ha inventato la Cassa depositi e prestiti come banca pubblica di sviluppo. Di tutto lo si può accusare, ma non di esser stato uomo di seconda fila nel policy-making italiano o di essere stato un ripetitore conformista di “mainstream” politico-economico. Il suo approccio all’”economia sociale di mercato” di scuola europea non era copiato dai manuali tedeschi; e il suo liberismo era lontano dalla turbofinanza. Aveva idee sue: sul crack Parmalat e sugli euro-bond aborriti da Angela Merkel, sulle privatizzazioni “modulate” di aziende-Paese come Eni o Enel.
Se Renzi sceglierà per l’Economia un editorialista – poco conta se del Corriere della Sera come Lucrezia Reichlin o di Repubblica come Tito Boeri – qualcuno rammenterà che anche Tremonti lo era nei primi anni ’90: ma già da una decina d’anni faceva muscoli nella palestra governativa del Psi di Bettino Craxi ed era già un affermato avvocato d’affari a Milano. Di una figura come la figlia di Alfredo Reichlin – braccio destro di Enrico Berlinguer nel Pci – ricordiamo certamente la lunga carriera accademica alla London School of Economics: storica culla degli economisti “radical” europei. Ricordiamo anche il suo ruolo di consigliere d’amministrazione indipendente nel prestigioso board di UniCredit (fu l’unica a non votare per il licenziamento di Alessandro Profumo nel 2009). Ma non rammentiamo prese di posizione di rilevanza esterna sulle scelte di una gestione molto dibattuta, nella governance di Piazza Cordusio e fra gli osservatori di mercato: come ad esempio lo stesso Zingales ha assunto più volte in termini critici contro il management. 



Reichlin ha scritto, un paio di settimane fa, un editoriale sul Corriere della sera, abbozzando una difesa di circostanza del sistema bancario italiano avviato verso una dura resa dei conti regolamentare con gli altri sistemi europei nella nuova Unione bancaria: ma è una polemica – quella sui rischi di soffocamento globale del sistema creditizio italiano – che lo stesso Tremonti ha avviato con ben altro piglio, quando ancora era in carica e prima del fallimento di Lehman Brothers. Né Tremonti – neppure da giovane – è mai stato in corsa per poltrone come la presidenza della Rai: come Reichlin invece è stata, con molto impegno, un paio d’anni fa, perdendo in volata “in quota rosa” con Anna Maria Tarantola, pensionata da Bankitalia. E tornando al dibattito di politica economica, non sono certo passati alla storia gli interventi tautologici di Reichlin sulla debole produttività strutturale dell’Azienda-Italia a cavallo dello start-up dell’euro.
“Matteo Renzi non ragiona come noi”: è il lead di un editoriale del Sole 24 Ore. Può darsi che il più giovane premier italiano – più giovane non solo di Gianni Goria ma anche di Benito Mussolini – non senta il bisogno di un inquilino forte a Via XX Settembre (Goria, peraltro, lo era stato lui stesso per quattro anni mentre Mussolini, milanese d’adozione, si affidò da subito al grande establishment del Nord). Può darsi che la premierizzazione del governo Renzi si riveli più spinta di quella dei governi Berlusconi (o dello stesso “governo del presidente” con Monti a Palazzo Chigi molto proiettato sull’interim dell’Economia). Ma per l’uomo misterioso che perfino il Financial Times ha prontamente ribattezzato “risk-taker” forse sarebbe un azzardo di troppo. Anche per un “nato con la camicia”, cui Moody’s si regala una promozione addirittura prima di entrare in carica.

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