L’acuirsi delle sofferenze bancarie e l’approssimarsi degli esami contenuti nel processo di valutazione che sta conducendo la Bce sugli attivi bancari (Asset Quality Review, AQR) hanno riproposto un tema che, a più riprese, viene sollevato come panacea dei problemi collegati all’esigibilità dei prestiti bancari, ovvero l’introduzione, anche nel nostro sistema, di una “bad bank”. Dal momento che le implicazioni di una siffatta soluzione possono essere molteplici e possono in particolare toccare anche il rating del Paese, è bene tentare di fare chiarezza ed esplicitare le condizioni alle quali si può ragionevolmente utilizzare questo strumento.



La bad bank è un veicolo finanziario che viene utilizzato per “depositarvi” i crediti “deteriorati”(i cosiddetti non performing loans – NPL) e consentire così alle banche di “ripulire” il proprio portafoglio prestiti (e dunque, l’attivo patrimoniale). Si tratta cioè di una società finanziaria specializzata nella gestione dei crediti problematici, ovvero di quei crediti che giunti a scadenza non sono rimborsati, perché il debitore (sia esso famiglia o impresa) versa in una situazione di crisi (transitoria [partite incagliate e prestiti ristrutturati] o permanente [prestiti in sofferenza]) e che richiedono perciò una gestione particolare e, soprattutto, un prolungamento dei tempi di rimborso.



La società in discorso può essere costituita da privati (solitamente sono le stesse banche a farsene promotrici) ovvero col concorso pubblico; in tal caso l’impegno di capitale va a sommarsi al fabbisogno dello Stato e determina così il deficit dell’anno in cui si manifesta. Questa circostanza, unitamente alle cifre delle partite deteriorate che registra il nostro sistema (circa 300 miliardi secondo le stime più recenti, e fra questi ben 150 miliardi di sofferenze, il 9,1% dei prestiti), fa capire immediatamente perché nel nostro Paese una “soluzione di sistema” non sia stata tentata finora e perché stenti a decollare nonostante i continui richiami alle esperienze positive recenti (vedi i casi della Spagna con la Sareb e dell’Irlanda con la Nama, entrambe imposte nel quadro dell’intervento del Fondo salva-Stati europeo – Esm) e all’indubbia utilità che una bad bank avrebbe ai fini di una ripresa dei flussi creditizi.



Questi ultimi trarrebbero vantaggio per il fatto che la pulizia del bilancio che l’operazione comporta in capo a una banca consente alla medesima di ridurre gli impieghi (che, per via dei coefficienti patrimoniali imposti dalle regole di vigilanza note come Basilea 3, assorbono capitale proprio in proporzione al rischio assunto) e dunque liberare risorse per ulteriori investimenti. In sostanza, a ogni euro di prestito deteriorato ceduto e incassato (si prescinde evidentemente dalla percentuale di decurtazione che subisce il valore nominale del prestito ceduto) può corrispondere un nuovo prestito che, in teoria, dovrebbe assorbire meno capitale di quello preesistente.

Di recente, anche il Governatore della Banca d‘Italia ha auspicato una soluzione del genere spingendosi a invocare “interventi più ambiziosi, da valutare anche nella loro compatibilità con l’ordinamento europeo…[poiché questi interventi, nda] possono consentire di liberare, a costi contenuti, risorse da utilizzare per il finanziamento dell’economia”. Nella mente del Governatore ci sono, verosimilmente, sia interventi pubblici (ove compatibili con gii impegni presi col Fiscal compact), sia interventi di cartolarizzazione, con creazione di titoli suscettibili di essere utilizzati come collaterali nelle operazioni di rifinanziamento presso la Bce.

Per la bad bank il guadagno è rappresentato dalla differenza fra ciò che incassa dopo la “cura” cui è sottoposto ciascun prestito e il prezzo pagato alla banca cedente: è lecito ipotizzare che il valore medio dei prestiti cedibili si aggiri oggi sul 40% del valore nominale. La banca che cede il prestito ravvisa la convenienza nella già richiamata liberazione di risorse per ulteriori impieghi, supponendo che abbia già spesato nel tempo, con opportuni accantonamenti, la perdita di valore subìta dai prestiti concessi e confluiti nelle partite deteriorate (i NPL ovvero incagli+ristrutturati+sofferenze).

Come abbiamo detto, oggi sia l’aumento delle partite deteriorate, sia la necessità di ripulire il proprio attivo in vista dell’esame della Bce in corso di svolgimento (AQR) stanno riproponendo il tema della bad bank. In verità, credo che quest’ultimo aspetto sia per noi meno rilevante rispetto ad altri paesi, poiché le nostre regole di classificazione delle partite deteriorate (volute dalla Vigilanza della Banca d’Italia) sono molto più rigorose che altrove e dunque tenderei a escludere sorprese.

Le nostre banche più grandi hanno già avviato la cessione di parte dei portafogli problematici a operatori specializzati (Unicredit) o stanno costituendo appositi veicoli per il trattamento delle partite deteriorate (Intesa), ovvero stanno progettando veicoli comuni per nuove operazioni di cartolarizzazione sui prestiti in bonis ristrutturati (Unicredit e Intesa); d’altronde, le dimensioni dei portafogli delle due banche in questione (si tratta di circa il 30% dei NPL complessivi) suggeriscono soluzioni mirate.

Per le altre banche si possono prospettare soluzioni prevalentemente private, anche estere e non di sistema, quali sono i “fondi” specializzati nei NPL: si calcola che il rendimento di queste operazioni potrebbe essere superiore a quello corrente sulle obbligazioni corporate. Da qui l’interesse ad acquisire i portafogli meno rischiosi che le banche dovessero via via decidere di cedere.

Un eventuale impegno pubblico, pure auspicabile, poiché si tratta di far ripartire la struttura produttiva del Paese, soffocata da un’austerità che ne ha minato profondamente la capacita competitive, potrebbe derivare da una rinnovata credibilità del Paese che consentisse di utilizzare al meglio i margini di flessibilità previsti dalle regole europee per finanziare investimenti pubblici! Credo che gli sforzi debbano essere indirizzati anche in questa direzione, poiché il sostegno pubblico può fare da traino alla costituzione di iniziative in grado di far ripartire il flusso dei credito, com’è appunto quella della fattispecie in discorso: una bad bank d’iniziativa pubblica, ma con larga partecipazione di tutte le banche interessate (non escludendo l’eventuale supporto di organismi europei quali l’Esm – magari da negoziare nel prossimo semestre a presidenza italiana!), potrebbe consentire di raggiungere l’obiettivo della “pulizia” dei bilanci bancari, senza far ricadere sulla collettività le perdite che dovessero residuare dopo il trattamento specializzato dei NPL.

Una ripresa nell’erogazione del credito, soprattutto a vantaggio delle imprese minori e un loro rafforzamento patrimoniale sono condizioni irrinunciabili per puntare a una rapida ripresa della nostra economia. In questa direzione si muove l’azione di ripulitura dei bilanci bancari attuata da operatori specializzati: se fra questi si potesse annoverare anche una bad bank di sistema ne guadagnerebbe la crescita economica in termini di rapidità ed efficacia.