“Debito e crescita: esiste una soglia magica?”. La domanda è il titolo di un paper del Fondo monetario internazionale curato da tre giovani studiosi: Andrea Pescatori, ricercatore presso la Fed di Cleveland, Damiano Sandri, economista che lavora alla divisione Macro-finanza del Fmi, e il senior economist del Fondo, John Simon. La risposta degli autori è un perentorio no. L’analisi di un secolo di indicatori economici in 34 paesi permette di smantellare le tesi di Reinhart e Rogoff già messe in serio dubbio dalle osservazioni di metodo di due studenti della Amherst University. La tesi dei due autori di “Questa volta è diverso”, per cui i paesi che soffrono di un debito pubblico oltre la soglia del 90%o sul Pil sono destinati a crescere assai meno delle nazioni più virtuose non trova fondamento nelle esperienze passate. “Non abbiamo trovato – si legge nelle conclusioni – una soglia di indebitamento oltre la quale vengono compromesse in maniera significativa le prospettive di crescita di un Paese”.



Questo non sta a indicare che il debito pubblico non debba preoccupare. “Abbiamo scoperto – spiegano gli autori – che un debito più alto si associa a una maggior volatilità della crescita. E una crescita volatile può danneggiare il benessere collettivo”. Insomma, come abbiamo sperimentato sulla pelle in Italia nel 2011, l’alto debito alle spalle è una polveriera che minaccia di saltare quando piovono tutt’attorno frecce infuocate. Per questo la situazione va messa in sicurezza prima che provochi una catastrofe, ma non inibisce in sé la possibilità di crescere. L’esperienza storica ci insegna che “i paesi che soffrono di un alto debito pubblico ma in via di rientro possono raggiungere tassi di crescita dell’economia molto simili a quelli dei paesi meno indebitati” .



Esattamente l’opposto di quello cui può aspirare l’Italia, visti i dati congiunturali in arrivo oggi che confermano la sensazione che il ritorno del Pil in terreno positivo nel quarto trimestre (+0,1%) non consenta di stare allegri. L’Istat segnala che il fatturato dell’industria ha registrato un calo congiunturale dello 0,3% a dicembre 2013 (indice destagionalizzato) e un aumento del 2,6% tendenziale (indice grezzo); nella media 2013 il calo è stato del 3,8%. Assai più allarmante il calo del 4,9% degli ordinativi, che lascia presagire altri mesi difficili, soprattutto per il mercato interno: il fatturato domestico nel 2013 è sceso del 6,1% e gli ordini del 3,5%, mentre sul mercato estero il fatturato è salito dell’1,5% e gli ordini del 2%.



Insomma, se ci basiamo sulle teorie del paper Fmi, per cui non preoccupa tanto l’ammontare del debito pubblico quanto il trend dell’economia, siamo ben lontani dall’uscita dal tunnel. Lungi dal creare le premesse per abbassare il debito grazie alla crescita, l’Italia è schiava di un circolo vizioso: ogni sforzo per ridurre il rapporto debito/Pil è concentrato sul numeratore (ovvero la repressione della spesa) invece che sul denominatore (più crescita grazie a investimenti e/o consumi). Una situazione che minaccia di essere insostenibile a partire dal 2015, quando entrerà in vigore il Fiscal compact, se il peso dell’aggiustamento del rapporto debito/Pil, da ridurre dall’attuale 133% al 60% entro vent’anni coinciderà con una stagione di deflazione.

Per questi motivi, la partita decisiva del nuovo governo si giocherà in quel di Bruxelles, con qualche atout in più. A differenza di quel che è accaduto all’indomani della crisi del 2009, la comunità scientifica si sta convertendo a una lettura critica dell’austerità alla tedesca. La Bce, vinta la partita della sopravvivenza dell’euro (circostanza che attenua per ora i rischi che incombono sul programma Omt dopo il rinvio alla Corte di giustizia europea), sta studiando una terapia anti-deflazione: Non è escluso l’avvio di un programma di acquisti di pacchetti di crediti bancari verso le imprese, da spalmare lungo l’intera eurozona. Dall’Ue filtrano i primi, timidi segnali sulla possibilità di allungare, in chiave anti-ciclica, i tempi dell’aggiustamento dei conti, come già è stato concesso a Francia e Spagna. Ma per conseguire risultati concreti è necessario “vendere” ai partner Ue risultati, non promesse. Senza deroghe rispetto a una strada maestra già seguita da altri paesi.

In sede Ue non viene chiesta una maxioperazione sul debito, vedi patrimoniale o un piano di privatizzazioni mai tentato nella storia finanziaria del pianeta, bensì una correzione di rotta che acceleri il segno più. Per fare questo non è necessario disporre del Mago Zurlì o di Franklin Delano Roosevelt in via Venti Settembre. Né va privilegiato il “tecnico” sul “politico”. A meno che per quest’ultimo non s’intenda qualcuno che vuole far saltare il tavolo degli impegni presi dal Paese in Europa, Unione politica che è anche nostra, mentre il “tecnico” sarebbe colui che obbedisce ai diktat della Merkel.

In realtà, per avere qualche speranza per modificare le scelte comuni europee contro lo strapotere tedesco e correggere una rotta scellerata che sta facendo il gioco anti-euro (poco male) ma anche anti-Europa (un grosso guaio) occorre saper costruire un asse con i paesi con interessi convergenti, Francia e Spagna in testa, pronti a dar retta a un “tecnico” che ispiri fiducia e affidabilità e si presenti con un bagaglio di riforme in linea con il resto d’Europa. Mica perché le riforme, da sole, creino lavoro (semmai, almeno in un primo momento, è vero l’opposto), ma perché sono il biglietto da visita necessario per attivare l’arrivo di capitali, pubblici e privati, condizione necessaria per parlare di ripresa.

Tutto il resto, dalla “politica” come viene vissuta nel Transatlantico a Sanremo, conta poco o nulla. E non si parli di “schiavitù” verso Bruxelles: siamo a metà del volo, non si può scendere a meno che gli altri passeggeri non siano d’accordo con l’atterraggio. Altrimenti possiamo aprire il portellone, ma c’è da fidarsi dei paracadute nostrani?