«Il sistema della tassazione sulle rendite finanziarie è iniquo perché colpisce in modo indifferenziato la vecchietta con lo stesso conto corrente da 40 anni e lo speculatore che fa una plusvalenza del 3% in tre giorni. Le aliquote andrebbero differenziate per fare pagare di più a chi davvero ci guadagna». Lo sottolinea Raffaello Lupi, professore di Diritto tributario all’Università Tor Vergata di Roma. Quella del Fisco è una delle tre riforme cui sta lavorando lo staff del premier incaricato Matteo Renzi. Tra le ipotesi c’è un incremento delle aliquote fiscali sulle rendite finanziarie, passando dal 20% al 22%, un piccolo assaggio di quella che potrebbe essere una patrimoniale del nuovo esecutivo.
Professor Lupi, come valuta questa novità?
Ritengo giusto equiparare la tassazione per quanto riguarda i titoli di Stato italiani e quelli stranieri. Per quanto riguarda le rendite finanziarie e le plusvalenze da capital gain, ritengo che l’incremento dell’imposta andrebbe effettuato non in modo indiscriminato, bensì tenendo conto dell’inflazione. Se l’inflazione è pari al 2% e un correntista guadagna l’1,5% di interessi, significa che il valore del suo deposito diminuisce nel tempo. Il paradosso però è che se invece un contribuente ottiene una plusvalenza del 3% in tre giorni sui titoli azionari, paga sempre la stessa imposta sostitutiva.
Quali sono le conseguenze?
Il primo cittadino ci sta rimettendo e il secondo guadagnando, eppure la tassa è uguale per entrambi. In un anno il deposito del primo correntista è passato da 100mila a 101mila e 500 euro, ma in realtà quella somma rispetto all’inflazione reale ha perso di valore. La soluzione ottimale sarebbe quindi di non fare pagare nulla nei limiti dell’inflazione. Siccome però in questo modo si perderebbe la maggior parte del gettito fiscale, quantomeno gli inasprimenti andrebbero fatti sui “sovra redditi” che eccedono l’inflazione. In questo modo il profitto da inflazione si continua a tassare al 20%, mentre il sovra reddito rispetto all’inflazione si tassa al 27%.
Più in generale, come valuta l’ipotesi di una patrimoniale che non sia limitata alle operazioni finanziarie?
Il problema di una patrimoniale è che tassa il patrimonio anche se quest’ultimo perde di valore. Un contribuente può quindi avere fatto investimenti pari a 100 milioni di euro due anni fa ed essere rimasto solo con 80 milioni. La patrimoniale è una soluzione estrema e una scelta obbligata quando non si riescono a tassare i redditi. Imu e tassa sui depositi sono inoltre già delle tasse su pezzettini del patrimonio. Un’imposta sul complesso del patrimonio non è però gestibile in via amministrativa, perché a differenza della tassazione sul reddito il prelievo non potrebbe essere effettuato dalle aziende.
Quali altri problemi andrebbero affrontati nell’ottica della riforma del Fisco prospettata da Renzi?
La maggior parte del gettito in Italia arriva dalle aziende che fanno da “esattori” per conto dello Stato prelevando ritenute, Iva, tasse sul risparmio e sulla benzina, per un totale di circa 450 miliardi di euro. Dove non arrivano le aziende, il Fisco però non arriva. Il mondo del lavoro privato non vede mai il Fisco in modo sistematico. È difficile vedere i dipendenti dell’Agenzia delle Entrate per strada a fare domande o valutazioni dettagliate. È anche per questo che le aziende dichiarano meno del dovuto, in quanto i controlli fiscali dovrebbero essere una funzione pubblica erogata dallo Stato come la luce e il gas.
(Pietro Vernizzi)