Il miglior antidoto contro lo stato attuale dell’Unione europea è una forma di populismo progressista, che si rivolga al malcontento diffuso per incanalarlo verso propositi costruttivi. Perché questo sia possibile è necessario che le scelte di politica economica e monetaria europee, invece di cedere terreno a favore dei più radicali, rinforzino e proteggano i moderati della classe media. Senza i moderati non sarà possibile promuovere una forma di populismo che sostenga un’agenda programmatica e progressista. D’altra parte, la maggioranza assoluta degli elettori europei è costituita da moderati e centristi che vogliono risultati positivi e stabili.



L’argomento a sostegno di un populismo progressista è piuttosto semplice: in un’Europa e in un mondo interdipendenti la cooperazione multilaterale, l’intervento statale a favore della crescita e l’immigrazione programmata sono fattori vitali per il successo economico. In pratica si ribalta l’adagio per cui un buon sistema politico fa emergere delle buone politiche: sono le buone politiche che possono aiutare a migliorare il sistema politico.



Tra il 1957 e il 1997 il metodo comunitario era riuscito a garantire uno sviluppo sufficientemente armonioso della cooperazione multilaterale europea. A esso, come abbiamo visto, è stato affiancato, se non sovrapposto, un metodo inter-governativo di omologazione e consolidamento egemonico. La grande difficoltà attuale è come evitare che i vantaggi costruiti dal primo siano annientati dal secondo. I progressisti europei, invece di lasciare che i populisti di destra continuino la loro opera di lento smantellamento dell’Ue, che prefigura un’Europa frammentata, chiusa in se stessa e quindi votata all’irrilevanza geopolitica nel sistema mondiale, dovrebbero mobilitare l’opinione pubblica a sostegno di un’unione più forte e coesa.



Purtroppo, presi dall’emergenza economica e finanziaria, i leader europei non hanno avuto la capacità e la volontà di correggere il sistema europeo prima delle elezioni europee del maggio 2014. Eppure, pur non volendo affrontare l’intera revisione dei Trattati, che sarebbe stata la soluzione migliore, essi avrebbero potuto abbastanza facilmente dare un segnale importante con la sola riforma del sistema elettorale europeo in modo da rafforzare il peso del centro politico moderato. Ad esempio, la ridefinizione delle circoscrizioni elettorali europee sarebbe potuta venire da una commissione indipendente dagli Stati membri e dai loro parlamenti. Inoltre, le istituzioni comunitarie avrebbero potuto trarre vantaggio dall’uso ormai diffuso delle nuove tecnologie collegate a Internet per lanciare vaste consultazioni popolari, dei “referendum telematici” per stimolare l’associazionismo locale per l’Europa, e giocare un ruolo essenziale per rendere i governi nazionali più responsabili e sensibili verso i cittadini e le loro esigenze. Così non è stato.

Un piano comune europeo di immigrazione programmata, cioè sulla gestione controllata dell’immigrazione e della concessione della cittadinanza – non la chiusura dei confini – sarebbe stato il mezzo migliore per sostenere la crescita della popolazione, elemento vitale per lo sviluppo economico. Nulla si è fatto. Intanto, i tragici esempi dei migranti morti nel Mediterraneo sono l’emblema dell’incoerenza e dell’impotenza europea. Un piano europeo di investimenti pubblici nelle infrastrutture, nell’innovazione e nella creazione di posti di lavoro – e non il protezionismo – sarebbero state le scelte giuste per sostenere la competitività europea. Si è fatto poco e male.

Forse ha ragione l’ormai ex ministro italiano dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, che con amarezza ha dichiarato che “una vittoria dei movimenti nazionalisti alle prossime elezioni europee potrebbe essere uno shock salutare per l’Europa”. Ormai sarà solo un miracolo che potrà invertire il sentimento anti-europeista delle opinioni pubbliche europee. Tuttavia, incombe la responsabilità su tutti i dirigenti pubblici europei e nazionali per evitare il peggio che, senza agire subito, verrà inesorabile.

L’Europa è confrontata a delle scelte urgenti. La prima fra tutte è trovare una soluzione accettabile per ricomporre la frattura geopolitica europea che è stata appena malcelata dietro il presunto successo dell’accordo sull’Unione bancaria. Il consolidamento dell’Unione europea secondo le regole egemoniche continentali, sostenute dalla Germania, è entrato in collisione con gli interessi atlantici, sostenuti dagli Usa e dal Regno Unito. La Francia e l’Italia da sole non hanno sufficiente peso specifico per orientare la scelta in un senso o nell’altro. Infatti, mentre la Francia tenta di ridurre il proprio declino di potenza proponendo il rilancio dell’asse franco-tedesco in chiave energetica e industriale, l’Italia userà il suo semestre di presidenza di turno dell’Ue per promuovere una mediazione. Resta il fatto che sia in Francia sia in Italia il gradimento dell’establishment da parte delle opinioni pubbliche è ai minimi storici, e che in entrambi i paesi si respira un’aria da tempi pre-rivoluzionari. Infine, il resto del “fronte Med” – Spagna, Grecia e Portogallo – è ormai soggiogato alla soluzione egemonica continentale.

A questa situazione si aggiunge il negoziato in corso tra Usa e Ue per arrivare a breve alla firma dell’accordo transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP). Quest’accordo potrebbe risolvere la frattura geopolitica europea, stemperandola in un quadro di riferimento più ampio e vantaggioso per tutti i membri dell’Ue. Non è una riedizione del piano Marshall, ma è comunque un’offerta di traino fuori dalle secche della crisi. Vale per gli americani, ma soprattutto per gli europei. Infatti, l’Amministrazione Obama non fa mistero del bisogno di avere un partner europeo unito, coeso e riformato. L’obiettivo del TTIP è di costruire un unico mercato transatlantico – zona di libero scambio – che permetta di consolidare gli asset occidentali nei negoziati commerciali e valutari mondiali.

Le grandi imprese europee hanno già colto l’opportunità offerta dagli Usa, ma resta il delicato nodo energetico che è incarnato nella relazione “speciale” tra la Germania e la Russia. Il fallimento dei negoziati e dell’attuazione regolamentare del TTIP spingerebbe le forze nazionaliste americane a rilassare l’impegno verso l’Europa, spostando definitivamente l’asse strategico verso il Pacifico. Anche in questo caso i buoni uffici dell’Italia potrebbero sbloccare l’impasse.

Se questo scenario di ricomposizione vedrà la luce lo sapremo nel corso del 2014. Se la disgregazione dell’Unione europea è il male peggiore, anche questo scenario non è scevro da problemi e preoccupazioni. Il certo vantaggio che il volano dell’economia dinamica americana darebbe al continente europeo, in termini di crescita economica e creazione di posti di lavoro, dovrà essere ben soppesato a fronte degli impegni giuridici che tale accordo comporta.

Come già sappiamo dall’esperienza del mercato unico europeo, sono i grandi gruppi industriali e finanziari a costituire il benchmark per creare le nuove regole di una zona di libero scambio. Inoltre, secondo l’autorevole quotidiano britannico The Guardian, le nuove regole includerebbero standard di produzione e di qualità calcate sul sistema americano, oltre a creare dei meccanismi giuridici arbitrali per la risoluzione delle dispute, che eluderebbero il sistema giuridico europeo. In pratica, i paesi europei opterebbero per l’egemonia americana invece di quella tedesca.

Se l’accordo Ue-Usa sarà firmato, come sembra, prima delle prossime elezioni europee del maggio 2014, incomberà alla presidenza italiana dell’Ue il pesante compito di negoziarne l’attuazione, garantendone anche i vari passaggi parlamentari. Coscienti che si tratta comunque di egemonia, si prospetta la rinascita del sogno e la fine dell’incubo.