C’è una cartina di tornasole per interpretare il discorso con cui il Presidente del Consiglio incaricato, Matteo Renzi, presenterà il programma. E dire se il nuovo Esecutivo va verso la modernizzazione o è solamente una minestra riscaldata, o una “ribollita” o una “pappa col pomodoro”. L’indicazione se si va verso il nuovo piuttosto che non verso il vecchio rivestito da Prada, la avremo da quello che Renzi dirà in tema di privatizzazioni. Come documentato il 17 febbraio su queste pagine, il programma (peraltro modesto) di denazionalizzazioni annunciato il 21 novembre 2013è in fase di stallo.
Nei giorni scorsi, però, si è visto in un albergo romano Steve H. Hanke. Chi è costui? I suoi titoli includono; Professore di Economia applicata e Direttore dell’Istituto di Economia applicata, Economia internazionale e Imprese alla Johns Hopkins University di Baltimora; Senior Fellow e Direttore del Progetto “Troubled Currencies” (valute malate) al Cato Institute di Washington, D.C.; Senior Advisor alla Renmin University dell’International Monetary Research Institute cinese a Beijing; Special Counselor del Center for Financial Stability a New York; soprattutto è noto come specialista in privatizzazioni. Si devono a lui, tra l’altro, i programmi che hanno portato alla denazionalizzazioni di televisioni e radio in numerosi paesi e un programma per privatizzare la Rai.
Una SpA di Stato per la tv era comprensibile come monopolio tecnico sino all’inizio degli anni Cinquanta. Da allora non lo è più. Tanto meno lo è da quando il digitale terrestre rende possibile centinaia di canali per svolgere “servizio pubblico” in linea con le esigenze dei territori. Non solo per finanziare la Rai si utilizza l’imposta di scopo – il canone – più odiata dagli italiani, ma, voltate le spalle a una funzione sociale e culturale, alla stessa funzione di intrattenimento gli italiani hanno risposto voltando le spalle, come dimostrato dagli ascolti all’ultimo (costosissimo) Festival di Sanremo. La stesse liti tra dirigenti Rai non interessano più nessuno, come mostrato dal poco spazio dedicato all’ultima dalla stampa nazionale.
Può essere il momento di riproporre un’idea che con Steve H. Hanke lanciai (senza grande successo) alcuni anni fa. Visto il tracollo dei conti e degli ascolti, e il vento di novità, ora ha maggiori chance. Nella situazione attuale – ammettiamolo con franchezza – la Rai avrebbe difficoltà a trovare altri acquirenti che non fossero la Croce Rossa, la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas o simili (sempre che l’avessero a prezzo zero e con mani libere nel rimettere in sesto ciò che resta di un’azienda per decenni in monopolio e desiderosa di tornare a essere la sola del settore in Italia, in Europa e – perché no?- nell’universo mondo). Occorre utilizzare immaginazione, esperienza e fegato.
Il primo passo può sembrare bizzarro: collegare la privatizzazione della Rai alla nascita di una vera previdenza complementare per gli italiani, le cui pensioni Inps sembrano essere sempre più striminzite. Il secondo consiste nel renderla una vera public company. Il Partito democratico tanto si è speso per il secondo pilastro previdenziale e per le public company che dovrebbe esserne lieto. Il precedente importante è il modo in cui sono state realizzate le privatizzazioni e i fondi pensioni in vaste aree dell’America Latina, dell’Europa Centro Orientale e dell’Asia.
In pratica, ciò vuol dire dare azioni Rai a tutti gli italiani. Seguendo quale metodo? Uno semplicissimo: l’età anagrafica, quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Santoro, Baudo, Carrà e quant’altro), avendo, dunque, titolo a un risarcimento con azioni da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo – ad esempio, cinque anni – a non essere poste sul mercato ma a essere destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato, il quale, però, manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti.
Unica regola: pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riesce sarebbe passibile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, se l’indebitamento supera certi parametri la liquidazione diventerebbe obbligatoria. E il “servizio pubblico”? Nell’età della rete delle reti, ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro-informazione pullulano – tanto generalisti quanto specializzati.
Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il Partito Rai vorrebbe tornare a tempi staraciani o leninisti, come la protagonista del film “Goodbye, Lenin” di una ventina d’anni fa. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In secondo luogo, si potrebbero prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor, quale che sia la rete (denazionalizzata o privata) che scelgono. Oppure ancora adottare forme di “tax credit” per chi produce prodotti televisivi culturali – come avviene con successo nel settore del cinema.
È un miraggio? No. È la modernizzazione, bellezza! Pensaci su, Matteo.