Spesso la politica e il dibattito pubblico si occupano del “thinking”, ovvero di quali problemi affrontare e con quali risorse, ma ancora raramente il dibattito si focalizza sulla “execution”, ovvero su come la macchina amministrativa, le leggi e i manager pubblici debbano agire per raggiungere gli obiettivi definiti nella fase precedente. Al limite si esaurisce l’argomento con una generica accusa alla cattiva burocrazia che blocca i piani correttamente individuati dai policy makers.



Se questo problema poteva essere trascurabile nell’economia di 30 anni fa e potevamo permetterci di impiegare decine di anni per realizzare un opera o di avere tre volte i costi per realizzarla rispetto ad altri paesi, oggi in un’economia globale l’execution è un fattore strategico di competizione forse più del costo del lavoro o delle materie prime. Ultimo esempio lampante è il pagamento dei debiti della Pa. A distanza di un anno si è scoperto che praticamente i tre quarti dei fondi non sono stati ancora rimborsati alle imprese nonostante le decisioni prese dalla politica in tal senso.



Un elemento importante per garantire efficiente realizzazione dei programmi è la produttività del lavoro, fattore che ci vede come fanalino di coda, anche nel privato, dei paesi Ocse e con un forte peggioramento della nostra condizione negli ultimi 15 anni. Su questo punto spesso abbiamo parlato poi della cattiva selezione della classe dirigente e della corruzione e mancanza di trasparenza che caratterizzano la Pubblica amministrazione, ma si sottovaluta come le prassi ordinarie derivino da alcune questioni di fondo che riguardano come viene impostata e regolata la macchina amministrativa e le leggi.



Perché il lavoro nel pubblico è così poco produttivo? Dipende esclusivamente dalla corruzione e dalla scarsa qualità del management? In parte, ma un fatto forse ancora più importante è il sistema di leggi, regolamenti e procedure di diritto amministrativo e del lavoro tipiche del lavoro pubblico in Italia. Come sono state immaginate queste leggi e perché? Il processo storico che le ha create si basa probabilmente su una situazione iniziale in cui le leggi dello Stato sono state immaginate più per tutelare il potere del “sovrano” che non per offrire un servizio al cittadino. In secondo luogo, la modellizzazione dei servizi, dei controlli e delle procedure, anche quando immaginata in astratto, senza implicazioni politiche, tende a replicare un modello Stato/Potere centrico invece di basarsi su best practices di effettivo successo.

Le domande che dobbiamo porci però sono: siamo sicuri che questo sistema di regole conduca a un utilizzo razionale delle risorse? Il legislatore, a vari livelli, quando stabilisce procedure e regolamenti ha un’esperienza per saper valutare quali siano importanti? Come matura questa esperienza? La riforma più importante che riguarda la nostra economia e lo Stato è quindi quella di capire come si definiscono leggi e procedure per normare l’attività economica e dare un servizio a cittadini e aziende.

Il legislatore pubblico stabilisce leggi, un diritto specifico e dedicato su cui costruisce sistemi di selezione, valutazione, appalto, diritti e regolamenti che in una certa misura cerca di diffondere anche nel settore privato, in alcuni casi obbligandolo a seguire regolamenti, procedure di accreditamento e così via. Tutto bene se non che il settore pubblico, almeno in Europa, si è avvantaggiato di avere risorse abbastanza illimitate (grazie a un’elevata tassazione), per offrire servizi non sempre percepiti in modo corretto dal cittadino, se non spesso ritenuti di scarsa qualità.

Un esempio di questo argomento è l’Epso, struttura di selezione per l’Ue caratterizzata da un elevatissimo formalismo, ma non, a mio giudizio, da grande efficacia, o l’Ena, scuola di formazione della classe dirigente della Pa francese, che anche in Italia viene vista come un modello da seguire. Questi modelli sono efficienti? Funzionano anche con risorse “scarse” o nel privato? O la loro applicazione porta via molto tempo e risorse e le distrae dal vero fine di dare un servizio al cittadino? Siamo sicuri che come esempio di organizzazione su cui modellare il sistema di leggi, processi e procedure non siamo meglio prendere ad esempio l’Esselunga, il Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, il Club Med o General Electric per citare alcuni esempi molto diversi, ma di successo?

Credo che le regole dello Stato e delle organizzazioni si debbano basare su esperienze di successo in cui in condizione di “scarsità” di risorse si sono dati dei servizi di buona qualità e ricevuti con soddisfazione dal cittadino. Queste esperienze in ambito privato o pubblico – per esempio, nella sanità – sono facilmente rintracciabili e su queste va costruito un sistema di leggi e procedure. Tale prassi è probabilmente più diffusa nei paesi di matrice anglosassone che non di derivazione europea – dove non esiste una separazione così netta tra pubblica e privato – ed è uno dei punti di competitività che sta portando risorse e persone in quel sistema a danno della nostra situazione economica e sociale.

Il nuovo sistema, basato su buone pratiche, dovrebbe contenere leggi e regolamenti semplici, brevi, senza troppi rimandi di legge e facilmente traducibili anche in una lingua straniera. In questo modo l’obiettivo sarebbe di stabilire obiettivi di risultato per individui e amministrazioni che siano comprensibili e presentabili in modo chiaro all’esterno. Per implementarlo si potrebbe riprendere la proposta contenuta in “Meritocrazia” (Garzanti, 2008, Roger Abravanel) di costruire una “delivery unit” di 1000 nuovi leader nella Pa identificati tramite una selezione pubblica che permetta a interni ed esterni di partecipare.