Mario Draghi, Presidente della Bce, e Jens Weidmann, numero uno della Bundesbank, sono da tempo abituati a comportarsi da cordiali nemici. E non intendono certo venir meno alla tradizionale inimicizia in questa primavera così ricca di dossier “caldi” sotto l’apparente bonaccia dei mercati finanziari. Da questo punto di vista, infatti, tutto stava andando bene. Forse troppo. La ripresa dei prezzi degli assets non si trasmette per ora ai numeri dell’economia reale. E questa difficoltà a rimettere in moto la macchina degli investimenti e dell’occupazione è l’ultima occasione di dissidio tra i due banchieri.



Mario Draghi, che nel 2012 ha vinto la guerra del salvataggio dell’euro con un intervento coraggioso e il varo del programma Omt, oggi affronta un’altra sfida: reimmettere liquidità nell’economia del Vecchio Continente sconfiggendo il demone della deflazione. Weidmann, che ha osteggiato senza pentirsi la politica di herr Draghi (“gli aiuti hanno solo rallentato la strada delle riforme in alcuni Paesi”, ha dichiarato di recente), fino a citare la Bce davanti alla Corte federale di Karlsruhe, ha già fatto sapere che voterà contro l’introduzione di eventuali “strumenti straordinari” per accelerare la ripresa dell’inflazione.



Per ora il duello è attutito dall’euforia per la ripresa d’appeal finanziario dell’area euro. Nell’Europa mediterranea affluiscono i fondi dei grandi gestori internazionali, in fuga dagli Emergenti. Le valutazioni delle Borse o dei mercati immobiliari restano, nonostante la crescita degli ultimi mesi, assai più convenienti degli Stati Uniti o della Gran Bretagna, ormai in pieno boom. Intanto, nelle stanze del Tesoro, ove non più tardi di 18 mesi fa ogni appuntamento con i mercati era vissuto con lo spirito del combattente in trincea, ci sono buoni motivi per festeggiare. Le aste di fine mese hanno registrato un successo strepitoso, culminato con il collocamento di 3 miliardi (l’offerta massima prevista) di Btp a cinque anni, oltre a 4 miliardi del nuovo Btp decennale (settembre 2024), a rendimenti calanti: il Btp a 5 anni è sceso al 2,14%, minimo record, e quello del nuovo decennale è risultato pari al 3,42%, minimo dal 2005. Risultati simili si festeggiano, da tempo, al ministero dell’Economia spagnolo. E continua la discesa dei rendimenti dei titoli irlandesi e perfino della Grecia. Una bella boccata d’ossigeno per un Paese come il nostro, con un debito pubblico di poco inferiore al 134% del Pil. I minori interessi, infatti, permettono di ridurre di almeno di 4 miliardi gli interessi sul debito, a tutto vantaggio delle riforme strutturali.



In questo bollettino di vittoria rischia di passare in secondo piano il dato tedesco. Scendono anche i titoli della Repubblica Federale. Gli indicizzati a 5 anni scivolano a quota 0,78% contro lo 0,91% di metà gennaio. Una discesa che trova spiegazione nell’andamento dell’inflazione tedesca: solo l’1% a febbraio, addirittura in discesa rispetto all’1,2% di gennaio. Troppo poco per tranquillizzare Draghi, reso inquieto dall’ennesimo sbilancio in seno all’eurozona. In un’Unione monetaria efficiente, il compito di riequilibrare la forbice di competitività tra i paesi, in assenza della leva del cambio, viene sostituito dalla velocità relativa di prezzi e salari.

Data la missione della Bce di mantenere l’inflazione poco sotto il 2%, la situazione ideale dovrebbe prevedere un tasso di crescita dei prezzi attorno al 3% in Germania e attorno all’1% in Italia e Spagna. Al contrario, rischia di restare molto bassa sia al centro che alla periferia d’Europa. Uno studio di Citigroup rileva che la Germania resta troppo timida: i salari crescono troppo poco, nonostante la situazione di pieno impiego, così come i consumi interni. Per paradosso, la struttura del mercato del lavoro, così imperniata sul lavoro flessibile, fa diga contro l’aumento delle retribuzioni già compresse dal ruolo dell’emigrazione. La finanza pubblica, concentrata sull’obiettivo del surplus di bilancio, non svolge certo un ruolo espansivo.

In questa cornice, secondo molti osservatori, l’Europa corre il rischio di finire in deflazione, la condizione peggiore per i debitori. È un pericolo reale, ovvero l’altra faccia del calo dei tassi su Bot e Btp. Attenti a celebrare il trend, che tra l’atro non dipende quasi per niente dalle evoluzioni della politica nostrana, senza tener presente che, come sosteneva Keynes, “in economia non conviene esser troppo virtuosi”. I tassi bassi sono una bella cosa se non si accompagnano a tassi di crescita ancor più bassi. Soprattutto se non si sfrutta la congiuntura per rimuovere i vincoli, anche psicologici, alla voglia di ripresa.

L’ad di Banca Intesa, Carlo Messina, ha appena dichiarato che la banca è pronta a mettere a disposizione delle imprese che abbiano progetti sostenibili 150 miliardi nei prossimi quattro anni. Una cifra importante, anche troppo vista l’attuale tendenza. Non a caso, da un primo sondaggio, è emerso che solo una minima parte di rimborsi della Pubblica amministrazione alle imprese è finito in investimenti. Gli imprenditori, com’era prevedibile, hanno pagato debiti e salari arretrati oppure hanno rimpolpato le riserve preziose in una congiuntura ancora difficile.

Insomma, gli animal spirits del capitalismo nostrano stentano a riprendersi. E la scossa, oltre che da palazzo Chigi, deve venire da Francoforte.