La Fondazione per la Sussidiarietà, in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore ha organizzato un seminario su “Le nuove frontiere della filantropia. Finanza sociale per un tempo di crisi in Europa e altrove”. Il seminario ha avuto come relatore principale il professore Lester Salamon, Direttore del Center for Civil Society Studies della Johns Hopkins University di Baltimora, curatore del libro “The New Frontiers of Philanthropy”, che uscirà il prossimo giugno per i tipi della Oxford University Press. Il professor Salamon è uno dei maggiori studiosi di non profit e “terzo settore” a livello internazionale e in questa intervista con ilsussidiario.net spiega in cosa consistano queste nuove frontiere della filantropia e come l’Italia sia uno dei protagonisti.
Cosa si intende precisamente con “nuova filantropia”?
Di fronte al crescere dei problemi relativi alla povertà, la salute, il degrado ambientale, e alla diminuzione delle risorse a disposizione, è la proposta di allargare lo spazio di azione della filantropia tradizionale, ridefinendola come la mobilitazione di risorse private verso obiettivi sociali e ambientali. Una definizione che include le tradizionali modalità di azione della filantropia e dell’intervento nel sociale, ma che al contempo cerca di individuare nuovi attori e indicare nuovi strumenti per rendere più efficaci questi interventi. Ecco da dove deriva il titolo del libro da me curato, “Le nuove frontiere della filantropia”.
Quando si parla di filantropia, vi è sempre chi pone il dubbio che le motivazioni siano diverse da un’intenzione vera al sociale. È questo un problema reale?
Le intenzioni di chi interviene possono essere molte e diverse, ma il punto non è quello delle intenzioni ma che vi siano investimenti da parte dei privati che affianchino gli interventi pubblici per risolvere i reali problemi sociali. In questo senso, l’ampliamento degli strumenti e delle modalità di intervento possono meglio rispondere alle diverse intenzioni degli investitori.
Questo nuovo approccio alla filantropia porta con sé anche una più ampia definizione di ciò che si intende per sociale?
Diciamo che non ne prende in considerazione solo l’aspetto più ristretto di aiuto al disagio sociale, ma considera tutto ciò che ha un riflesso per la comunità. In questo senso, anche nuovi processi produttivi che siano più rispettosi dell’ambiente o meno dannosi per i lavoratori fanno parte del sociale. Il punto principale ritorna a essere la necessità di mobilizzare risorse private per investimenti non diretti solo a particolari interessi “privati”, ma che rispondano anche all’interesse della comunità.
Può parlarci del concetto di “impact investment” che sembra rivestire una notevole importanza in questo nuovo approccio?
Per “impact investment” si intende l’investimento di risorse private in iniziative che non abbiano come scopo solo il profitto, ma, appunto, un impatto in campo sociale. In altri termini, gli investitori non rinunciano a un rendimento finanziario, ma esso dipende dall’ottenimento di risultati accertati nel settore sociale in cui si è investito. È un campo in cui da qualche anno alcune fondazioni hanno cominciato a impiegare parte dei loro fondi e in cui stanno entrando anche imprese. In questo senso ho suggerito che le fondazioni che operano con queste modalità si considerino delle “banche filantropiche”, impegnate in ciò che si può definire finanza sociale. Infatti, uso anche un’altra definizione tratta dal mondo della finanza: “leverage for good”, una leva per il bene. È da tenere presente che il cosiddetto “terzo settore” crea molte occasioni di lavoro e che, in questo periodo di elevati tassi di disoccupazione, è riuscito a mantenere costanti i suoi livelli di occupazione, anzi, in molti casi li ha anche accresciuti.
Quindi, ciò che si propone è un uso sociale della finanza e dei suoi strumenti?
Già ora si può parlare di investimenti sociali, ma sono ancora una parte limitata nel mondo della filantropia e non ancora sistematici. Vi sono perciò risorse e potenzialità non ancora utilizzate appieno e scopo principale del nostro progetto è di illustrare questi esempi, affinare gli strumenti e allargare la platea dei protagonisti. Gli strumenti a disposizione, con cui e su cui si sta lavorando, sono principalmente i cosiddetti “social-impact bonds”, finanziati da investitori privati ma il cui rendimento è collegato a risultati nel sociale e a risparmi per lo Stato. Un esempio è dato dall’assistenza agli ex-carcerati perché non divengano recidivi: in questo caso l’ente pubblico riconosce il rendimento del prestito obbligazionario solo al raggiungimento di risultati di riduzione delle recidive e dei conseguenti risparmi per le finanze pubbliche.
So che lei è particolarmente interessato all’esperienza delle Fondazioni bancarie italiane. Ci può dire perché?
Prima della legge Amato che le ha costituite, l’Italia aveva un tasso pro capite di spesa filantropica piuttosto basso, ma l’introduzione delle Fondazioni di origine bancaria ha fatto balzare il vostro Paese ai primi posti, se non al primo, in Europa. In più, dal mio punto di vista di studioso del non-profit e del terzo settore, quello italiano rappresenta un esempio che può essere seguito anche da altri Paesi. L’assenza di forti istituzioni operanti nel sociale controllate privatamente rende difficile costruire una società civile forte e indipendente; questo, a sua volta, mette a rischio la costruzione e il mantenimento di un sistema democratico e di un sistema di mercato che funzionino nell’interesse di tutti. Inoltre, le fondazioni bancarie si sono rivelate un ottimo strumento per compiere privatizzazioni mantenendo una parte delle risorse in mano alle comunità di origine, impedendo che finissero così in mani private o straniere. È il processo che ho definito “ philanthropication thru privatization”, cioè “filantropicazione” attraverso privatizzazione.
Quindi, secondo lei, l’esempio italiano può essere replicato anche altrove.
Senza dubbio, e infatti sto portando avanti un progetto, intitolato appunto “PtP”, con l’appoggio di alcune Fondazioni bancarie italiane e fondazioni statunitensi. I primi risultati mostrano esempi in molte nazioni, pur molto diversi tra loro, che confermano la possibilità di utilizzare le numerosissime privatizzazioni in corso un po’ in tutto il mondo per quella che possiamo definire la “charitable alchemy”, la alchimia caritatevole rappresentata dalle vostre fondazioni bancarie. Credo che l’esperienza dell’Italia in questo settore possa essere una delle aree che meritano di essere sviluppate a livello europeo durante il semestre in cui l’Italia presiederà il Consiglio dell’Unione europea.