“Lo vuole l’Europa” è diventato un mantra ormai. Qualcuno comincia tuttavia a farsi delle domande e a chiedersi, per esempio, se i trattati e le politiche economiche dell’Europa di fatto non calpestino la nostra Costituzione e se l’esserci vincolati a essi non abbia comportato il tradimento dei principi che sono alla base della nostra Repubblica. È il dubbio che si pone Luciano Barra Caracciolo, già membro del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa, nel suo libro “Euro e (o?) democrazia costituzionale La convivenza impossibile tra Costituzione e trattati europei”. In questa intervista l’autore, muovendo dalla concezione di capitalismo accolta dalla nostra Costituzione, ricostruisce le ragioni storiche e gli strumenti giuridico-economici che sottostanno alla scelta della moneta unica, evidenziando le contraddizioni che sono alla base dell’attuale crisi.



Che tesi sostiene nel suo libro?

Più che una tesi si tratta di una ricostruzione. Che parte da una domanda: cosa avrebbero pensato i padri costituenti della situazione attuale?

Come ha risposto?

Ho cercato di ricostruire, in base alle formulazioni giuridiche ed economiche dei costituenti, quali sono le caratteristiche fondamentali del modello socio-economico della Costituzione e quali sono invece quelle dei trattati europei.



Quali sono le principali contraddizioni emerse?

La contraddizione è radicale. La Costituzione infatti parte dall’esperienza di 150 anni di affermazione della società borghese, che pone il modello della libera iniziativa economica al centro del sistema con i problemi che ne derivano. Il problema principale è quello del conflitto sociale. Capitale e lavoro, secondo i calcoli della parte capitalista, sono entrambi assoggettabili alla legge della domanda e dell’offerta. La Costituzione ritiene invece che il lavoro, posto come fondamento, non possa essere ridotto a merce. Proprio perché alle spalle ci sono 150 anni di lotte, conflitti, sofferenze e anche grossi traumi, la Costituzione propone un modello di contemperamento che prevede il coinvolgimento dello Stato. Uno Stato che interviene ed è capace di garantire la crescita e la ridistribuzione a tutta la comunità dei vantaggi dell’iniziativa economica privata. In generale è un modello di capitalismo che è adottato in tutto il mondo, quello che nel secondo dopoguerra ha portato al trentennio della Golden Age.



Come si esce, secondo lei, da queste contraddizioni?

In realtà, non si vuole uscire da queste contraddizioni. I trattati europei si fondano sul neoliberismo, il quale afferma l’inefficienza di un mercato del lavoro che non sia dominato dalla pura legge della domanda e dell’offerta. Neoliberismo che si riappropria dell’idea del lavoro-merce che sembrava definitivamente scartata dalle costituzioni moderne dei paesi europei, ripristina l’idea che il calcolo razionale degli operatori economici va calibrato sulle aspettative inflattive sostenendo che questo porti automaticamente all’efficienza del capitale, degli investimenti, al continuo progresso tecnologico, ecc. Ma tutto questo non si è mai verificato.

Cosa non ha funzionato?

Nei fatti è avvenuto esattamente il contrario. Nella struttura capitalistica il progresso tecnologico si è avuto con l’intervento dello Stato. Prima ancora del Trattato di Maastricht ci furono governi, come quello degli Usa, che adottarono queste teorie della nuova macroeconomia classica e che registrarono una continua diminuzione della crescita. L’idea che veniva affermata era che la deflazione o il contenimento dell’inflazione passava necessariamente dalla rinuncia del modello fordiano, cioè dalla diminuzione del reddito disponibile dei lavoratori che si trasformano in consumatori indebitati, che non hanno i mezzi sufficienti per sostenere il livello dei consumi. Questo non fa altro che riportare l’economia alla sua instabilità ciclica, del tutto coincidente a quella anteriore al 1929. Il nostro problema oggi è questo.

 

Quale problema?

La nostra incapacità di comprendere che esiste un punto di equilibrio, una sintesi che solo lo Stato può garantire e che ci consente di stabilizzare il ciclo. Non si può dire che il ciclo economico va male solo quando c’è la rigidità del mercato del lavoro: è una cosa che non corrisponde alla realtà, visto che le cose vanno male e sono andate male ovunque. Non solo, in questo modo ci esponiamo a crisi economiche paurose che travolgono le società. Ancora peggio, perché i governi sono allineati a questa idea e quindi acuiscono la crisi, privandosi in partenza dei mezzi di intervento anticiclico previsti dalle costituzioni.

 

Che ruolo dovrebbe avere lo Stato?

Oggi abbiamo demonizzato il welfare. Ma esso non è soltanto un sistema che attribuisce privilegi a persone pigre che non vogliono sottoporsi all’incertezza del vivere. Il welfare è un sistema intero che consente di far fronte agli squilibri nella distribuzione del reddito e quindi di mantenere quella equità sociale diffusa che oltretutto sostiene la domanda. Il welfare è intrinsecamente collegato al sostegno della domanda e alla possibilità di modulare l’intervento dello Stato al sostegno della domanda stessa. Questo non vuol dire che occorra sempre e comunque fare politiche di allentamento della spesa pubblica: dipende dal ciclo economico, dal livello degli investimenti, da quello della produzione, ecc. Ma quando si tratta di una caduta della domanda così drammatica il riequilibrio non può certo passare per l’austerità. È un suicidio senza via d’uscita.

 

A cosa stanno rinunciando gli italiani in questo momento?

Stanno perdendo la democrazia. Innanzitutto perché le nostre politiche sono incentrate sull’euro: non abbiamo più una politica monetaria e non abbiamo più una politica fiscale. Quindi non abbiamo più una politica economica in senso stretto. La stessa politica industriale è esclusa da una serie di clausole previste dai trattati, quelle che vietano ad esempio gli interventi di Stato o i monopoli di Stato. È un quadro di principi che costituisce un modello unico e unilaterale. La democrazia la perdiamo perché non abbiamo la possibilità di fare una scelta politica: non c’è una maggioranza politica o un’altra che possa mutare queste politiche perché sono tutte incatenate dagli stessi vincoli. Vincoli che escludono che il capitalismo senza intervento dello Stato giunga a crisi cicliche e che tutti gli aggiustamenti debbano passare esclusivamente sul costo del lavoro. E l’euro è uno strumento di cristallizzazione, di potenziamento di questa impostazione.

 

Cosa suggerisce: dobbiamo abbandonare l’euro?

In base a una visione, chiamiamola, costituzionale, cioè che indica quelli che sono i principi fondamentali e inderogabili, non mutabili neanche in sede di revisione della Costituzione e in base all’osservazione dei dati economici che si registravano nei paesi quando non adottavano queste politiche, la risposta non può che essere sì.

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