Con la nascita di FCA, società di diritto olandese con sede fiscale a Londra, il legame tra Fiat e l’Italia sembra essersi definitivamente sciolto. “Come italiano direi che non è stato piacevole, in un momento in cui serve essere tutti compatti su un progetto di rilancio del Paese, vedere che un’azienda e una famiglia che hanno avuto così tanto dall’Italia e dagli italiani se ne scappano via alla chetichella solo perché gli fa più comodo”, è stato il commento di Diego Della Valle. Una posizione condivisa da molti cittadini, ma che viene contrastata da Francesco Sisci, commentatore di Asia Times (www.atimes.com), di base a Pechino, forte anche di due casi eclatanti di investimenti “impossibili” nel nostro Paese: «Molti in Italia piangono perché la Fiat se ne va. Ma l’azienda lo fa per sopravvivere. Sarebbe meglio se l’azienda restasse in Italia e ci morisse? Oppure che lo Stato reinventasse forme di sussidi e aiuti che mantenessero la Fiat in uno stato di sopravvivenza vegetativa a spese dei contribuenti e alle spalle dell’Unione europea, che proibisce aiuti statali ad aziende di uno Stato? Il problema non è la partenza della Fiat, ma il fatto che la pubblica opinione ignora largamente che aziende molto più grandi vorrebbero investire in Italia, ma non ci riescono o sono state turlupinate. Cose che avvelenano l’ambiente economico e contribuiscono a spingere via aziende estere o italiane».



C’è chi dice che la Fiat ha avuto tanto dall’Italia ed è ingiusto che se ne vada così.

Spesso si parla del passato. La Fiat ha preso tanti aiuti dallo Stato italiano, ora dovrebbe essere grata e restare, ripagare il debito. Ma quegli aiuti sono stati presi per mantenere dei posti di lavoro, fornire un servizio per lo Stato (dare lavoro). Il servizio è stato reso, ma non poteva andare avanti all’infinito, anche perché i finanziamenti non sono durati all’infinito. Se poi qualcuno dicesse che il servizio allora è stato pagato troppo caro, è un altro discorso. Ma è assurdo contestare la partenza della Fiat o chiedere tasse per il trasferimento della holding Fiat. La Gran Bretagna, patria delle prime automobili, ha venduto le sue industrie a stranieri, tedeschi o giapponesi. Mussolini impose l’autarchia, e la Corea del Nord, dove il leader ventenne ammazza il suo numero 2 e cento dei suoi parenti, comprese donne e bambini, ha la juche (autarchia). Oggi l’economia britannica va meglio dell’italiana forse anche per questo, mentre la Corea del Nord è letteralmente alla fame.



Qual è allora il problema dell’Italia?

Il problema vero è che nessuno si dispera, e si dovrebbe disperare, perché aziende molto più grandi di Fiat che vorrebbero venire in Italia, ma non ci riescono. È il caso del fondo sovrano di Singapore GIC che ha investito un miliardo a Fiumicino e vorrebbe farne lo snodo del traffico aereo del Mediterraneo e portare in Italia milioni di nuovi ricchi asiatici. O di Li Ka-shing, il più grande trasportatore di container del mondo, che vorrebbe trasformare Taranto in un’altra Rotterdam e spostare l’asse della logistica dal Nord Europa all’Italia. Entrambe non riescono a raggiungere il proprio obiettivo, eppure ciascuno avrebbe un impatto molto maggiore per il Paese dell’addio di Fiat. Da Pechino, tutto questo sembra una follia incomprensibile.



Perché GIC e Li Ka-shing non riescono a raggiungere il loro obiettivo in Italia?

I problemi di GIC e Li Ka-shing sono in sostanza di essersi scontrati e arenati nella palude della burocrazia italiana. GIC ha investito nella convinzione di potere attuare il raddoppio dell’aeroporto, cosa che invece a oggi sembra forse impossibile per tanti motivi tutti italiani; Li Ka-shing credeva di potere ottenere lavori di ampliamento del porto, cosa che anche qui non sta avvenendo da una decina di anni. Per ciascuno i motivi sono decine e forse anche legittimi, ma se due colossi così non ce l’hanno fatta in Italia, chi altro straniero potrebbe farcela?

 

Il Governo ha previsto degli appositi pacchetti per attirare nuovi investimenti stranieri nel nostro Paese.

Non capisco di cosa stanno parlando: gli investimenti stranieri già ci sono, il problema è che non riescono a funzionare. Qualcuno crede che se GIC o Li Ka-shing hanno preso delle fregature in Italia potrebbe arrivare qualcun altro tentato dall’idea di farsi fregare di nuovo? Certo è possibile, ma improbabile. Se qualcuno vuole davvero investimenti stranieri si muova per risolvere la situazione di Fiumicino e Taranto. Matteo Renzi, che è l’uomo nuovo, forse potrebbe dare dei segnali in questo senso e così davvero cominciare a cambiare la percezione del mercato italiano. Il resto, ci perdonino, è fumo. Se l’Italia produce innovazione e libertà, la Fiat tornerà.

 

Cosa intende dire?

Se GIC e Li Ka-shing faranno partire i loro progetti, la Fiat tornerà e di corsa. Se no emigreranno tutti, a cominciare dai talenti. Del resto i talenti italiani già all’estero in realtà solo pochi vogliono farli tornare. Se tornassero darebbero fastidio a chi non si è mai mosso, al di là delle facili lavate di bocca. Renzi, Berlusconi, Grillo forse dovrebbero cominciare a mettere le mani in pasta qui.

 

Che esperienza ha la Cina rispetto all’attenzione per gli investimenti esteri?

La Cina è cresciuta perché dall’inizio i governanti si prendevano cura degli investimenti stranieri. La joint venture per produrre localmente gli ascensori Schindler o la prima fabbrica di auto della Volkswagen erano investimenti molto minori, per quantità e qualità, di quelli di GIC o Li Ka-shing, eppure vennero seguiti personalmente da Deng Xiaoping che, forse, nella storia globale avrà un posto più grande di quello dei nostri governanti. Così come allora fece Deng occorrerebbe che facciano i nostri dando un segnale al mondo. Se invece si pensa a barriere l’Italia viene spinta su una deriva nordcoreana: è questo che si vuole?