La Commissione europea, nel suo rapporto sul quarto trimestre 2013 dell’eurozona, ha scritto che “senza le necessarie riforme strutturali, la qualità della vita nell’eurozona, comparata a quella degli Usa, nel 2023 sarà più bassa di quanto era nel 1960. […] La qualità della vita nell’Ue nel 2023 sarà al 60% di quella Usa”. La Commissione ammette che l’Ue ha perso molte opportunità negli anni ‘90 a causa delle resistenze dei governi nazionali che non hanno fatto le riforme per recuperare competitività, produttività e stimolare l’innovazione, com’era invece indicato nella “strategia di Lisbona” – “la più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010” (Sic!). Questi dati possono avere sia l’effetto di fomentare ancor di più le spinte alla rinazionalizzazione, sia di giustificare l’inverso per avere “più Europa”.
Se da un lato appare ovvio che quest’Unione europea, nonostante sia in crisi e proponga le “gabbie” che i citati accordi contrattuali promettono, offre ancora l’opportunità a un buon numero di paesi membri di compiere autonomamente delle ampie e profonde “riforme strutturali”, dall’altro lato è anche vero che le “caste” politiche nazionali non hanno nessuna intenzione di fare delle vere riforme strutturali perché sarebbe incidere sulla propria carne e clientele.
Il caso italiano è emblematico: dalla fine del 2011 l’Italia è governata da governi “atipici” che avrebbero potuto compiere le riforme senza esporsi a costi politici elettorali, ma hanno scelto invece di accettare gli accordi europei facendoli pagare ai cittadini attraverso un incremento sensibile della tassazione. In Francia si è seguito un percorso abbastanza simile a quello italiano, mentre in Spagna, Portogallo e Grecia si è scelto di sacrificare intere generazioni di giovani e anziani che sono stati condotti all’indigenza e alla povertà. Delle riforme nemmeno l’ombra!
L’economista Paolo Savona ha stigmatizzato la situazione sul quotidiano Milano Finanza del 28 dicembre 2013: «Uscire dall’euro? Mai detto, ma ciò non può significare che non si debba essere preparati a farlo (il Piano B), ove la situazione peggiorasse per nostra colpa o per eventi esterni sui quali non possiamo influire. Non possono esservi posizioni precostituite (stare o non stare) su temi vitali per il nostro Paese […] Uscire oggi dall’euro è un problema molto serio che richiede un’intensa azione diplomatica preparatoria per nuove alleanze, come lo richiede la messa a punto dei modi per restarci. […] non possono essere l’aumento disordinato della pressione fiscale, alimentato dalla filosofia redistributiva dei redditi e della ricchezza dai presunti ricchi agli effettivi poveri che contraddistingue l’attuale “svolta dei quarantenni”. Se essi non provvedono a due interventi urgenti, la ristrutturazione del debito pubblico con garanzia di cessione del patrimonio dello Stato e il taglio di almeno il 3% della spesa pubblica, per acquistare tempo e procedere a una riforma radicale che richiede tempi lunghi, quella della pubblica amministrazione, non usciremo dalla crisi, anzi ci addentreremo in essa. […] Lo Stato assorbe la metà del Pil ed è l’unico settore che si è espanso nel corso della crisi, mentre tutti gli altri si sono ridimensionati. Se poi i quarantenni mettono mano, sorretti dai fautori della crisi attuale, a una maggiore patrimoniale rispetto a quella che è già stata decisa, allora l’uscita dall’euro verrà causata da chi prenderà questa decisione. […] se saremo capaci di fare questa riforma, saremo anche rispettati e forse potremo dire la nostra per la riforma dell’Unione europea, anch’essa da realizzare in più tappe: ritorno alla legalità delle decisioni e al rispetto degli accordi; attribuzione alla Bce almeno del compito di intervenire sul cambio dell’euro e al Parlamento europeo il potere di decidere, su proposta della Commissione, di attuare un piano di infrastrutturazione e di investimenti in ricerca e sviluppo nell’ambito del 3% del Pil europeo. In breve, uscire non dall’euro ma dall’incubo e rientrare nel sogno europeo, quello in cui abbiamo sempre creduto e che resta un passaggio storico indispensabile. Chi si oppone genera in un secolo la terza tragedia dell’Europa che si voleva evitare».
A fronte di questa incresciosa e preoccupante situazione, una consistente realtà di movimenti e partiti politici in quasi tutti i paesi europei cavalca i sentimenti popolari di disaffezione, rabbia e delusione. Con l’abilità che solo le narrative populiste riescono ad avere sull’elettorato, il sentimento popolare, che è legittimo e reale, si sta incanalando in una ribellione neo-restauratrice del mantra “nazionale”, contro i governi “europeisti”. Questo sta avvenendo sia nei paesi egemonici (Germania, Finlandia, Olanda), sia in tutti gli altri paesi europei, e finanche negli Usa e in Russia.
Fioriscono iniziative e proposte per “uscire dall’euro”, “chiudere le frontiere alla libera circolazione dei cittadini europei”, “nazionalizzare le banche”, “abbandonare il rigore di bilancio e rattizzare la spesa pubblica”, “fare referendum per abrogare le norme nazionali di attuazione del Fiscal compact”, “discriminare gli immigrati e i richiedenti asilo”, “tassare i ricchi”, “combattere le infrastrutture trans-europee”, e finanche occupare le “piazze e i palazzi del potere”, “bloccare le frontiere alle merci degli altri”, “darsi fuoco” e ogni altra spettacolarizzazione iconoclasta.
Nell’immaginario collettivo e individuale di vasti settori dell’elettorato europeo, l’europeismo è diventato sinonimo di danno sociale. C’è anche chi vagheggia – tra gli altri Romano Prodi, un ex presidente della Commissione europea! – di forgiare alleanze anti-tedesche, riunendo gli interessi di Italia, Francia, Spagna e Grecia. Nel Regno Unito, dal quale storicamente provengono caustiche critiche pragmatiche ma realiste sul futuro dell’Europa, si assiste alla rincorsa del governo del conservatore Cameron dei sentimenti più anti-europeisti del continente, e all’incombente minaccia dell’indipendenza della Scozia.
Finora la comunicazione dei governi “europeisti” e quella delle istituzioni comunitarie non è riuscita a costruire una narrativa che mobiliti i sentimenti popolari a favore di una maggiore integrazione europea. La “pecca” della comunicazione delle istituzioni comunitarie e nazionali sta nell’illudersi di poter nascondere l’origine del problema: la sovrapposizione dei due modelli di Unione europea ha infranto il sogno trasformandolo in un incubo!
(2- fine)