Houston abbiamo un problema. E decisamente serio. Nonostante la vulgata degli ottimisti si sia immediatamente lanciata in giustificazioni degne del marito fedifrago colto in flagrante (il tempo, il Capodanno, quasi i 45 economisti che hanno preso una toppa storica non fossero a conoscenza di queste variabili quando hanno espresso il loro giudizio), il dato dell’export cinese a febbraio fa venire i brividi: -18,1% anno su anno, contro aspettative del +7,5%, come mostra il primo grafico a fondo pagina. Questo non è un dato preoccupante, è peggio: rappresenta il peggior fallimento rispetto alle previsioni del bilancio commerciale cinese nella storia e il secondo peggior dato di sempre.



Combinando i dati di gennaio e febbraio, l’export è in calo dell’1,6% anno su anno, un dato che smentisce in maniera plateale la presunta ripresa a livello globale. Di più, l’export cinese verso i cosiddetti Brics è in calo di oltre il 20%. Partendo poi da un dato di aggiustamento stagionale, andiamo ancora peggio: l’export mese su mese è calato del 34%, mentre l’import dello 0,4%. Il dato non supportato da aggiustamento stagionale è, invece, il -18,1% già citato. Come anticipato, subito gli economisti hanno dato la colpa allo Spring Festival, il quale porta con sé fluttuazioni molto significative nel tasso di crescita mensile, così come nel dato del deficit: insomma, si anticipa l’export e si posticipa l’import.



C’è però una domanda: gli stessi economisti che parlavano di un dato al +7,5% non sapevano queste cose prima di esprimersi? Stiamo parlando di un fallimento della deviazione standard a livello 6, come ci mostra il secondo grafico, non di un errore frazionale! Colpa del maltempo anche in Cina, forse, come negli Usa? E guardate il terzo grafico: sembra che nemmeno le importazioni enormi di rame, utilizzato come collaterale per tutti i prestiti del sistema bancario ombra, abbiano aiutato il dato dell’import a salire. E stiamo parlando, per il periodo gennaio-febbraio, di qualcosa come 915mila tonnellate di rame! E poi come mai, nonostante tutta questa apparente domanda, il prezzo della commodity sta letteralmente collassando?



Un dato è chiaro: a collassare è anche il bilancio commerciale degli Usa verso la Cina, come mostra la tabella a fondo pagina. A questi dati, di per sé sufficienti a mettere in discussione le prospettive di crescita del gigante asiatico, così come la tenuta del suo sistema economico di fronte alle nuove sfide della crisi, va unito il primo default su un corporate bond, di cui abbiamo parlato sabato. Un qualcosa di mai visto in Cina, dove la “mano visibile” dello Stato era sempre intervenuta per evitare eventi che propagassero all’esterno un’idea di vulnerabilità del sistema.

Ovviamente, il default della Shanghai Chaori Solar Energy&Technology non rappresenta nulla di sistemico, visto che stiamo parlando del corrispettivo in yuan di 14,5 milioni di dollari, il cui pagamento è andato a scadenza venerdì senza essere onorato: in un Paese in cui vige il libero mercato, nessuno di fatto farebbe una piega. Ma in una nazione dove il commercio è così strettamente controllato dal governo, lo stesso che da mesi parla della forte volontà di implementare nuove riforme sul business, si tratta di una grossa scommessa.

Ci troviamo di fronte a una sveglia molto rumorosa per gli investitori sui mercati di capitale, un qualcosa che potrebbe galvanizzare i partecipanti e i regolatori, convinti che questo possa portare Pechino verso un più rapido piano di riforme riguardo governance e infrastrutture di protezione dell’investitore. Insomma, un’apertura reale al libero mercato. Nei fatti una buona notizia, ma lo ritenete davvero possibile in Cina? E, soprattutto, dopo questo precedente, chi azzarderà scommesse su altre aziende che si trovano sull’orlo del default, sapendo che il governo o le grandi banche da esso controllate non entreranno più in gioco come cavalieri bianchi? Lo si può fare, magari a livello speculativo, in mercati aperti, ma in Cina lo fareste?

Di converso c’è il fatto che i salvataggi statali precedenti, almeno quattro, hanno creato una massa critica di azzardo morale nel sistema, incoraggiando gli investitori a ricercare rendimenti sempre più alti – e quindi rischi sempre maggiori – perché garantiti proprio dalla “mano visibile” dello Stato che preservava dai rischi sul credito: come leggere quindi questo default? La Cina cambia e riforma, avvicinandosi di un passo ai principi del libero mercato (e anche qui ci sarebbe da parlare e non poco, visto che quanto valso per Lehman Brothers non è valso per Aig, Fannie&Freddie, Wells Fargo e via salvando da parte di governo e Fed) oppure questa mossa è prodromica unicamente alla stretta creditizia che Pechino intende porre in essere, anche svalutando pesantemente lo yuan come ha fatto la scorsa settimana, per sgonfiare la bolla del sistema bancario ombra?

Vi assicuro che non è questione di lana caprina – e parlo a livello globale – avendo a che fare non con la Grecia ma con un gigante capace di affondare i mercati. A mio avviso quanto accaduto con la Shanghai Chaori è stato il classico test, il canarino nella miniera di carbone: se non ci sarà contagio, se lo Shibor non volerà alle stelle e l’interbancario non si bloccherà del tutto (e già è sulla buona strada), aspettiamoci costi del denaro più alti e altri default, una sorta di purga per ripulire un po’ un sistema completamente grippato. Insomma, potrebbe essere un evento di trasformazione, una trasposizione in sedicesimi della teoria schumpetriana della “distruzione creativa”, qualcosa che potrebbe cambiare per sempre il mercato obbligazionario cinese senza porre rischi sistemici di credito a livello globale.

Insomma, un po’ come nella logica maoista del “colpirne uno per educarne cento”, le autorità cinesi stanno sfruttando una situazione tutta interna di distorsione del mercato per rendere più disciplinati gli investitori, ponendo finalmente dei criteri valutativi non dopati per quanto riguarda le aziende del Paese: ovvero, i soggetti con bassa qualità sul rating di credito non godranno più della protezione dello Stato che tutto fa e tutto controlla, ma andranno incontro a criteri valutativi che imporranno condizioni più stringenti per il rifinanziamento e costi di finanziamento più alti alla radice. Insomma, lo Stato cinese è stufo – e, più che altro, preoccupato per la sostenibilità stessa del sistema – di offrire garanzie implicite ad aziende con rating di credit non-investment grade e intende colpire duramente il concetto stesso di azzardo morale che quell’atteggiamento da balia ha portato con sé negli anni di apertura, seppur distorta, ai concetti dei libero mercato.

E stiamo parlando di un mercato del debito corporate da 14 triliardi di dollari, una miniera a cielo aperto spesso e volentieri popolata da securities sopravvalutate o sovra-prezzate gestite e trattate da aziende che non potrebbero nemmeno stare sul mercato senza le garanzie statali: sembra pazzesco, ma la Cina sembra stia pensando come l’America reaganiana, quando i concetti di rischio d’impresa e libero mercato erano lontani anni luce dal socialismo reale mascherato della Fed stampa-tutto dei giorni nostri. Avanti di questo passo, paradossalmente, la Cina si potrebbe trasformare in un mercato più stabile sul lungo termine, aprendo quindi a maggiore accettazione da parte della comunità finanziaria globale, ponendo fine ad anni di dispute sul dumping implicito, il ruolo dello Stato dell’economia e guerra valutaria.

Insomma, mentre l’America si scopre schiava del denaro della Fed e incapace di operare in un regime di reale libero mercato, la Cina scodella in faccia la mondo un’operazione di trasparenza e riforma che potrebbe cambiare e non poco le regole del gioco. Avendo a che fare con i cinesi, ovviamente, la cautela non solo è d’obbligo, ma è un imperativo assoluto. Tuttavia il Comitato centrale del partito unico che si sta tenendo in questi giorni potrebbe scaraventare sul piatto dell’economia globale una serie di novità che nessuno avrebbe reputato possibili solo dieci – o forse anche cinque – anni fa. La Cina punta a trasformare il mercato obbligazionario corporate interno in qualcosa di estremamente attrattivo per gli investitori esteri e lo intende fare proprio grazie a questi default, ovvero ingoiando di fronte al mondo la medicina amara della disciplina di mercato, un qualcosa di estremamente positivo sul lungo termine e che – paradossalmente – la patria del liberismo, gli Usa, non fanno più da almeno il 2007.

Se attraverso queste novità la Cina saprà offrire agli investitori globali maggiore chiarezza anche a livello di tutela legale rispetto al processo di gestione dei fallimenti e delle bancarotte delle proprie aziende, questo non potrà che tramutarsi in una calamita di attrattività per maggiori investimenti e quindi ulteriori inflows di valuta estera: in un mondo che cambia, anche Pechino non può più sperare e basarsi su export e bassi salari, i dati che vi ho fornito all’inizio dell’articolo parlano chiaro. La Cina punta a cambiare e a diventare il nuovo grande player nel mercato globale, ma vuole farlo cambiando il suo modello senza farsi dettare le regole, anzi, anticipandole per farle proprie: il pricing di capitale in base a regole di mercato per obbligazioni mal gestite come quelle che hanno fatto default venerdì scorso è il prezzo da pagare, ma potrebbe portare a uno sviluppo sul lungo termine totalmente inatteso.

Attenzione, cari lettori, ai cambiamenti in atto in questi giorni e mesi in Cina: il futuro post-crisi dell’economia mondiale, passa da lì. E ci riguarda tutti quanti.