Nel giorno in cui l’Ocse, bontà sua, certificava il rischio di deflazione per la periferia dell’eurozona, qualcosa cominciava a scricchiolare nell’Ue. Anzi, qualcosa pare proprio che stia per rompersi. Non saprei come altro giustificare, infatti, l’incredibile richiesta avanzata da Marcel Fratzscher, direttore dell’influente think-tank tedesco German Institute for Economic Research (Diw, l’acronimo in tedesco), alla Bce: un quantitative easing in piena regola per evitare il rischio di deflazione, con acquisti obbligazionari mensili per 60 miliardi di euro al fine di evitare una contrazione del credito e una trappola in stile giapponese. Nel suo editoriale pubblicato sul quotidiano Die Welt, Fratzscher è fin troppo chiaro: «È tempo che la Bce agisca. Altrimenti l’Europa rischia di cadere in una pericolosa spirale al ribasso, con prezzi che crollano e domanda in ulteriore diminuzione. La Bce deve contenere la minaccia deflattiva rapidamente e con decisione e lanciare un ampio programma di acquisti obbligazionari sulla falsariga di quello della Fed». Per la precisione, acquisti mensili per lo 0,7% del debito dell’eurozona, un valore pari a quello del Qe3 della Fed.
Insomma, dopo l’ennesima conferenza stampa in cui l’Eurotower ha reiterato la linea dell’inazione, è proprio la locomotiva d’Europa a lanciare un grido d’allarme, a fronte della massa monetaria M3 scesa sotto le zero negli ultimi otto mesi e con l’inflazione giù allo 0,8% rispetto all’obiettivo previsto di circa il 2%: dati che, uniti alla linea di rigore scelta da Draghi, hanno portato l’euro a 1,39 sul dollaro, facendo di fatto aumentare proprio i rischi di deflazione e gelando l’export. Certo, i dati del Fmi che parlano di un 20% di probabilità che l’Ue vada in deflazione potranno far dormire sonni tranquilli al governatore, ma non a chi osserva quotidianamente la realtà macro dell’eurozona e i rischi di vulnerabilità rispetto a shock esterni, leggi correzione dei corsi che parta da Wall Street o l’aggravarsi della crisi dei mercati emergenti oppure in Ucraina.
Fratzscher è convinto che solo acquisti su larga scala di obbligazioni sovrane, compresi i Bund, su base pro-rata rispetto al disborso statale in seno all’Ue, possa scongiurare un rischio mortale: essendo il Diw uno dei cinque think-tank tedeschi con ruolo di advisory per il governo, par di capire che a Berlino si cominci ad aprire la porta a un’ipotesi di reflazione e che l’opposizione dei due membri tedeschi all’interno del Consiglio della Bce verso politiche di stimolo potrebbe perdere un po’ di smalto. Per la Diw questa è la strada maestra, anche perché paesi come Italia, Spagna e Portogallo paiono ormai del tutto impossibilitati a recuperare competitività rispetto ai blocco del Nord, a meno che non si costringa i cittadini a lavorare 15 ore al giorno pagati 200 euro al mese.
Cosa nei fatti già posta in essere, ovviamente non in questi termini parossistici, con la cosiddetta svalutazione interna, ovvero tagli drastici ai salari e ai prezzi, di fatto la strada maestra per far salire – come è accaduto – le traiettorie del debito pubblico. Per Fratzscher, «i prezzi in calo fanno salire i tassi di interesse reali per aziende e famiglie, una ratio che fa crescere il carico di debito e il rischio della necessità di una ristrutturazione dello stesso. Lo sbocco di una tale situazione potrebbe essere un circolo vizioso che una volta innescato sarebbe molto difficile da bloccare per la Bce e l’esperienza giapponese degli ultimi vent’anni ci dice quanto questo scenario possa essere doloroso».
Il problema è: come agire? O, meglio, sotto quale ombrello operativo farlo? Il programma Smp, di fatto esistente solo sulla carta, oppure l’Omt, che avrebbe dovuto sostituirlo e implementarlo ma che rischia di non nascere nemmeno per la bocciatura ex ante proprio da parte della Corte costituzionale tedesca? Al Diw non hanno dubbi: l’Omt non deve essere confuso con l’acquisto di obbligazioni sul modello della Fed, visto che quest’ultima operazione è uno strumento puramente monetario e non il salvataggio di paesi specifici nei guai. Inoltre, la paralisi in cui la Bce sembra precipitata «potrebbe fare più danno alla sua credibilità del prendere misure di emergenza». E forse, una ragione per possa giustificare una richiesta di questa portata, risiede in alcune cifre e in questi tre grafici.
Mentre l’indice della volatilità Vix in Europa superava quota 20, infatti, l’indice azionario pan-europeo scendeva sotto il cosiddetto “livello Putin”, ovvero pre-momentum bellico in Ucraina. Ma la cosa che fa riflettere è altra, anche se strettamente connessa a questo trend: gli investitori negli ultimi giorni stanno fuggendo dai titoli tedeschi, svizzeri e francesi per lanciarsi nel nuovo bene rifugio: l’indice azionario Psi 20 di Lisbona! E sapete chi fa compagnia alla Borsa lusitana, registrando un open interest da mille e una notte? L’indice azionario italiano, il caro Ftse Mib in rally perenne: il secondo e terzo grafico parlano chiaro, con la divergenza di performance tra le varie Borse Ue da inizio anno che si sta esacerbando sempre più. Insomma, si scappa dalla Germania troppo invischiata con la questione Ucraina per la sua dipendenza al 30% dal gas russo e ci si fionda carichi di denaro negli indici azionari di due ex Piigs: ora, vi pare normale?
Più che altro per un motivo: se davvero la Germania dovesse andare in crisi per la questione russa, magari in caso di sanzioni reali contro Mosca, pensate che il resto dell’Ue, periferia in testa, non pagherà e a caro prezzo il costo? Ma ormai lo sapete cari lettori, nulla è più connesso tra finanza ed economia reale, i fondamentali macro sono soltanto dei numeri da tirare fuori una volta alla settimana per amore di statistica: finché ci sono i soldi facili delle banche centrali, finché c’è il carry trade, finché c’è speculazione sul breve, chissenefrega di Pil e tasso di disoccupazione!
Prendete la Grecia. Lunedì i ministri delle Finanze riuniti a Bruxelles hanno chiesto con forza ad Atene di concludere in fretta i negoziati con i suoi creditori internazionali in merito al programma di salvataggio, la cui revisione è stata cominciata dalla troika in settembre e che ancora oggi vede divergenze tra le parti rispetto ad alcune cifre e riforme da porre in essere. Il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, è stato chiaro: «Ci sono ancora argomenti sul tappeto di cui discutere sia in ambito fiscale che bancario, che di riforme strutturali». Ma ci sono anche urgenze che potrebbero portare Atene ad abbassare di nuovo la testa e dire sì a qualsiasi richiesta: il 20 e 22 maggio prossimi vanno infatti a scadenza due bond che comporteranno per la Grecia l’esborso di 10,2 miliardi di euro, più o meno l’esatto ammontare della prossima tranche che la troika dovrà sborsare – poi dicono che hanno salvato la Grecia, hanno salvato i creditori della Grecia! – ma occorre che quel denaro arrivi in cassa per tempo, visto che Atene ancor attende 4,9 miliardi dall’Ue e 1,9 miliardi dal Fmi.
Klaus Regling, il capo del fondo salva-Stati Efsf, ha però rassicurato tutti: «Abbiamo a disposizione di Atene, nell’ambito dell’attuale programma di salvataggio, 10,1 miliardi di euro». Insomma, hedge funds e banche tedesche e francesi stiano tranquilli. Ma al netto della discrepanza di giudizio rispetto alle necessità di finanziamento delle banche greche (6,4 miliardi di euro per la Banca centrale di Atene, 8-9 miliardi per il Fmi), altra voce di spesa che andrà subito a drenare le nuove tranche di aiuti alla faccia dei cittadini che muoiono di fame, sapete in realtà su cosa si basa lo scontro fra troika e Grecia? Tra le altre cose, sul latte fresco o meglio sulla durata della scadenza per poter definire fresco il latte che si compra al supermercato o al negozio dietro l’angolo. Certo, solo una micro-questione che si somma ad altri macro-temi (licenziamenti dei dipendenti pubblici, ricapitalizzazione delle banche, liberalizzazione dei farmaci da banco), ma è sul latte che lo scontro si è fatto teso anche a livello di opinione pubblica greca, visto che se la data di scadenza venisse allungata da tre a dieci giorni – come chiede la troika – questa riforma farebbe arrivare latte dall’Europa del Nord (e dalla Baviera) a basso costo che metterebbe fuori gioco i produttori locali. Per la troika, invece, la riforma aumenterebbe, come suggerito anche da quei geni dell’Ocse che si sono accorti solo ora del rischio deflazione, la concorrenza e farebbe diminuire il prezzo del latte per i consumatori finali. Via da questa Europa. Il prima possibile. E senza alcun rimpianto.
P.S: A occhio e croce Putin sta vincendo anche la guerra economica, almeno stando a vedere le posizioni nette long sul prezzo del petrolio – ovvero di chi scommette sul suo rialzo – che il 4 marzo hanno toccato il record di tutti i tempi a 44 miliardi di dollari, dai 42,4 della settimana precedente (come si vede nel grafico qui sotto). Quindi, sapendo che era in atto il preparativo di un corner per far crollare il prezzo – la Russia ha un break-even fiscale per il greggio a 117 dollari al barile – e mettere in difficoltà le casse statali, il buon Vladimir ha mosso i carrarmati e fatto eccitare la speculazione internazionale. Il problema è: se una qualsiasi mossa di distensione, anche strumentale degli Usa, farà saltare il catalizzatore di quelle scommesse al rialzo e porterà a chiusure forzate delle posizioni call, cosa succederà al prezzo del petrolio e alla bilancia commerciale russa?
Per ora Putin sta vincendo, ma Wall Street potrebbe rivelarsi avversario ben peggiore dei simpaticoni in passamontagna della piazza di Kiev. Le nuove guerre non hanno bisogno di proiettili e sangue, bastano i meno truculenti ma altrettanto efficaci futures.