Parlare è facile, governare è un’altra storia. La delusione ci sta tutta, forse perché il comunicatore Renzi ci aveva illuso di poter varare nel consiglio di ministri di ieri sia il taglio alle tasse, sia il cosiddetto Jobs Act. Invece, siamo ancora di fronte ad annunci e a rinvii. “Cento giorni per cambiare” ha detto il presidente del consiglio. Wait and see. È vero, ieri ha portato a casa il sì della Camera alla nuova legge elettorale. Uno a zero, ha twittato @matteorenzi, anche se avrebbe voluto vincere tre a zero. Più tempo passa, infatti, più l’intervento choc che era stato promesso diventa un brodino. L’effetto sorpresa non c’è più, e torna la palude dei conti, delle compatibilità, delle resistenze, torna (e speriamo di no) il balletto dei veti incrociati.
Agli occhi degli investitori istituzionali pronti a calare in Italia, grazie alla svalutazione degli asset che ha reso a buon mercato banche e imprese, ci sono tre tabù da abbattere per rendere appetibile l’ex Bel Paese: il primo è l’ingovernabilità; il secondo è il mercato del lavoro troppo rigido non solo e non tanto per le norme contenute nello Statuto dei lavoratori, ma per l’enorme potere di veto delle corporazioni e dei sindacati; infine, le imposte troppo alte che non caleranno mai perché non si riesce a ridurre la spesa pubblica corrente. Il governo Renzi, correttamente e con coraggio (quanto meno verbale) ha preso di punta tutti e tre i tabù e ha cominciato ad attaccarli.
L’Italicum è una proposta già criticata a fondo e con forti ragioni, ma certamente prende di petto il problema dell’ingovernabilità e cerca di risolverlo; questo è il suo obiettivo principale anche a scapito della rappresentatività che, comunque, in un Paese come questo è più che garantita. Alla Camera la nuova legge elettorale è passata, sia pur tra manovre, scontri, feriti e acciaccati (soprattutto nel Partito democratico, ma non solo, anche nel M5S, nella Lega o nelle piccole formazioni politiche), ora vedremo che cosa accadrà al Senato.
Sul mercato del lavoro, la cui riforma è contenuta nel Jobs Act, invece, si prende tempo. Niente decreto, strumento già negato a Mario Monti dal Presidente della Repubblica che ha ascoltato il grido di dolore della Cgil. Si ricorre a un disegno di legge delega, meccanismo già visto, collaudato e rivelatosi sinonimo di compromessi, se non di insabbiamento. Vedremo. Intanto, il governo vara alcune misure di semplificazione che favoriscono le imprese e il mercato del lavoro. Provvedimenti che si muovono nel senso giusto, ma ben lontani dall’effetto che avrebbe un intervento, immediato e robusto, per rendere più flessibile e sicura per tutti la compravendita della forza lavoro, con meno vincoli alle assunzioni e ai licenziamenti, ma anche una protezione migliore contro la disoccupazione. Sospendiamo il giudizio, speriamo che non si metta in moto la macchina dei lacci e dei laccioli, ma la partenza non si può certo definire a razzo.
E veniamo alle tasse. Era la grande attesa della giornata: un taglio immediato su salari e stipendi inferiori ai 15 mila euro l’anno. Con un ammontare di 10 miliardi (compresi i 2,5 decisi dal governo Letta) su base annua per 10 milioni di lavoratori. Dunque, 1.000 euro a testa. In un colloquio con Il Sole 24 Ore Renzi aveva detto che il beneficio sarebbe stato visibile sulle buste paga del 27 aprile. In conferenza stampa ha detto 27 maggio. Non si sa se si taglia l’Irpef quindi con beneficio anche per i pensionati, oppure se sono detrazioni solo per i lavoratori attivi. Sbuca anche una riduzione di dieci punti per l’Irap come voleva la Confindustria, da coprire con un aumento delle tasse sulle rendite finanziarie dal 20% al 26%, con esclusione dei titoli di stato, che in realtà è un aggravio sui risparmi. Ma tutto resta un elenco di titoli.
Ci sono le coperture finanziarie? Il problema è saltato fuori a Bruxelles nei colloqui di Pier Carlo Padoan con i vertici della Commissione europea: il ministro dell’Economia, tornato a Roma, si è messo a fare i conti e ha scoperto che c’è ancora da lavorare. Il presidente Napolitano, che ha le antenne dritte in tema di rigore dei conti pubblici, ha fatto trapelare la sua preoccupazione. Carlo Cottarelli ieri mattina è stato ascoltato al Senato e ha detto che realisticamente, di qui alla fine dell’anno si può contare su 3 miliardi dalla spending review. Tre, non sette come annunciato da Renzi. Ci sono poi 3 miliardi dalla riduzione dei tassi d’interesse, circa 6 miliardi dalla differenza tra disavanzo pubblico effettivo (2,6% del Pil) e parametro di Maastricht (3%), 1,6 miliardi di Iva in più grazie ai pagamenti dei debiti alle imprese (questi ultimi però non sono i 60 miliardi annunciati da Renzi, ma 47 come previsto da Letta) e infine 2 miliardi dal rientro dei capitali. Stiamo parlando di impegni e previsioni, non di denaro già messo da parte. Non esiste nessun tesoretto, c’è da tagliare e sperare che le proiezioni econometriche dalle quali dipende questa lista della spesa siano accurate. Se Olli Rehn, il Commissario europeo agli affari economici, sospetta che Renzi cammini su un ghiaccio sottile, non ha tutti i torti.
Si può anche dire che 10 miliardi sono pochi se è vero che di sole imposte ne abbiamo pagati 40 in più dall’autunno 2011 alla fine del 2013. Dunque, quattro a uno per il fisco, una sonora sconfitta per i cittadini contribuenti. E il parlare di patrimoniali o di altri sacrifici sulle pensioni, sia pur le più alte, non promette nulla di buono. Non che il bicchiere sia del tutto vuoto. La nuova legge elettorale è un successo sia pur ancora parziale. L’impegno sulle tasse viene ribadito con addirittura una data simbolica, il primo maggio, in tempo per le elezioni europee. La riforma del mercato del lavoro comincia il suo cammino sia pur più lungo e periglioso del previsto. Dunque, bisogna sospendere il giudizio.
Se davvero arrivassero, questi 10 miliardi, concentrati nel tempo e nello spazio sociale (quindi non la solita pioggerella dispersiva), sarebbero un contributo importante per cambiare le aspettative. Nessuno potrebbe più dire che in Italia le tasse aumentano soltanto, sarebbe l’inizio di un’inversione di tendenza che da sola aprirebbe una finestra di speranza. Allora perché rinviare di un altro mese? Può darsi che il motore di Renzi si sia momentaneamente imballato perché ha avuto il piede pesante sull’acceleratore. Possibile che sia già a corto di benzina?