Finora l’Italia “non ha fatto tangibili progressi rispetto alla raccomandazione della Commissione Ue” di far scendere il deficit, rimasto al 3% nel 2013 contro il 2,6% raccomandato dall’Europa. Quando ieri mattina sul sito della Banca centrale europea sono apparse queste parole si è subito pensato a una bocciatura in tempo quasi reale del piano Renzi. Interpretazione poco realistica, anzi improbabile: un documento ufficiale della banca centrale prima della pubblicazione deve affrontare una serie di procedure e di passaggi che richiedono più di una notte di riflessione. Inoltre, gli uffici delle banche centrali ragionano sui numeri e sui documenti, non sulle suggestioni o sulle slides: difficile che abbiano deciso di fare un’eccezione per Matteo Renzi.
Esaurita la querelle diplomatica, resta la questione di sostanza: il rapporto tra il nuovo corso della politica italiana e la Comunità europea. Renzi ha proposto in sostanza un cambio di rotta sull’asse Roma-Bruxelles. Non è più tempo di chiedere permesso o di discutere sui decimali. Se volete che l’Italia affronti finalmente le riforme strutturali, dal fisco alla giustizia, che rendono così difficile la crescita, dovrete consentire al governo una libertà d’azione maggiore a quella accordata agli esecutivi precedenti, quando la precondizione per governare era il placet di frau Merkel o di Olli Rehn. Altrimenti, la partita diventerà difficile per tutti, non solo per noi. Anche perché le elezioni europee battono alle porte, la minaccia euroscettica cresce un po’ ovunque. La politica dell’austerità incontra ostilità crescenti un po’ dappertutto, come dimostrano le relazioni di condanna approvate ieri dall’europarlamento contro l’operato della Troika in Grecia.
Non è la condizione ideale per aprire un fronte di conflitto con il Premier italiano, assai abile a cavalcare l’impopolarità altrui: è piaciuta all’opinione pubblica la scelta di decidere le misure senza confrontarsi con sindacato e Confindustria. Probabilmente piace ancor di più l’idea di un Premier italiano che prende le decisioni e poi le comunica alla Germania. Vale la pena di scontrarsi con un politico così popolare? Angela Merkel, dotata di grande concretezza, non lo farà prima di aver capito quale animale politico sia quel giovanotto italiano. E se ai buoni propositi sulle riforme, seguiranno i fatti, il cancelliere tedesco si comporterà come ha già fatto in altre occasioni: all’apparenza rigida, in realtà pronta a chiudere un occhio o due come ha fatto con Spagna e Francia, che godono di deroghe elastiche sul fronte dei parametri di Maastricht. Naturalmente se il Premier fiorentino riuscirà a conquistare in patria i consensi necessari per un programma a lungo termine.
Ma quali margini di manovra corrono tra l’Italia affamata di crescita e l’Europa dell’austerità? Molti, se il Bel Paese saprà individuare una strategia di crescita che non comporti nuovo debito. Cosa possibile nel medio termine, se gli investitori internazionali si convinceranno che l’Italia offre condizioni vantaggiose, finanziarie e non solo. Ma guai se per finanziare lo sviluppo si farà ricorso a nuovo debito, la vera preoccupazione della banca centrale.
Non è certo una novità infatti che la banca di Francoforte solleciti come ha fatto ieri l’Italia (e non solo) a mettere il debito pubblico in una “traiettoria discendente”. Da questo punto di vista lo strappo di Renzi presenta problemi di metodo e di merito. Per quanto riguarda il metodo, le nuove leggi europee e italiane prevedono che i cambi di rotta in materia di bilancio debbano passare non solo il vaglio dei parlamenti nazionali ma esser motivati davanti alla Commissione europea. Non si tratta di sudditanza, ma di regole introdotte nel momento più grave della crisi, quando l’euro è stato a un passo dal collasso, con possibili danni devastanti per tutti.
A proposito del merito, il rapporto deficit/Pil pari al 2,6% è solo una tappa intermedia verso l’unico principale obiettivo, cioè il pareggio di bilancio a partire dal 2015. Al contrario, nella visione italiana, il fatto di essere sotto la soglia del 3% è stata interpretata come una disponibilità eccezionale, da spendere per ridar fiato ai consumi. Quasi un’eresia per Bruxelles, che consente deroghe una tantum per investimenti, cosa che certamente non sono i 100 euro detratti dall’Irpef che, a partire dall’anno prossimo, dovranno trovare un’altra copertura.
Esiste, insomma, una notevole distanza sulla sostanza del provvedimento. Il Fiscal compact non è materia facilmente negoziabile per la Germania. Anzi, è il cuore della teoria per cui i prossimi guai per il pianeta verranno dalla gigantesca mole di debiti accumulata dagli Stati sovrani: la Banca dei regolamenti internazionali ci ha appena ricordato che il debito globale, dallo scoppio della crisi a oggi, è salito da 70 a 100 trilioni di dollari. Oggi il prossimo terremoto finanziario ci sembra remoto, affermano a Berlino, ma il mondo ha imparato a sue spese a sottovalutare certi moniti. Ma vi rendete conto che Ashoka Mody, ex numero due del Fondo monetario internazionale per l’Europa, sostiene che l’Italia già oggi non più in grado di sostenere il suo debito? Ma vi rendete conto, potrà ribattere Renzi, che questo è il frutto di una strategia miope?
L’Italia non uscirà dall’emergenza finché in una municipalizzata del comune di Roma si pagheranno più stipendi ai dirigenti che non alla Nasa. Ma per cambiare le cose occorre il potere reale, quello che si continua con il voto. Guardi lontano cara frau, potrà dire Renzi il fiorentino. Lei gli ripeterà il monito con cui l’ha accolto al primo eurogruppo: “Lei è della Fiorentina? A me è sempre piaciuto Mario Gomez, giocatore di talento e bravo ragazzo. Ma così fragile…”. All’ex sindaco di Firenze dimostrare che un tackle duro non fa paura.