L’Unione europea, che in forza del Trattato di Lisbona (Tfeu) entrato in vigore il 1 dicembre 2009 ha personalità giuridica internazionale, sta negoziando per nome e per conto dei suoi 28 stati membri un trattato internazionale di libero scambio commerciale e degli investimenti con gli Stati Uniti d’America, denominato Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip). Secondo le previsioni, il Ttip sarà firmato dalla Commissione europea entro il 26 marzo 2014, quando il presidente Obama si recherà a Bruxelles, e potrà essere perfezionato solo dopo l’approvazione da parte del Parlamento europeo, che in forza del Tfeu deve partecipare alla procedura di formalizzazione del testo. La speranza americana, che si è tradotta in una determinata pressione sull’Ue, è che l’attuale Parlamento europeo approvi il testo prima delle elezioni europee del 25 maggio 2014. I tempi sono molto stretti, ma la “macchina” è spinta al massimo della sua potenza. Per capire che cosa è il Ttip, e perché gli Usa sono così determinati e coinvolti, è necessaria qualche spiegazione preliminare. Negli anni ‘60 l’economista ungherese Bèla Belassa teorizzò sei stadi successivi dell’integrazione economica che “naturalmente” portano all’integrazione politica (Area di commercio preferenziale; Area di libero scambio; Unione doganale; Mercato comune; Unione economica e monetaria; Integrazione economica completa). Sono riconoscibili gli stadi evoluzione del progetto europeo che a oggi è l’unica realizzazione multinazionale che è arrivata al quinto stadio di integrazione.



Va subito chiarito che mentre l’unione doganale produce effetti prevalenti verso l’esterno, cioè il comportamento dei suoi membri verso agenti commerciali esterni è omogeneo e previamente deciso, nel caso delle aree di libero scambio i membri non hanno necessariamente lo stesso comportamento “doganale” verso i non membri. Il “cuore” di un’area di libero scambio è, infatti, che i paesi usano un sistema comune della certificazione di origine, attraverso cui sono definiti i requisiti di quantità minima di fattori produttivi e valore aggiunto locali immessi nel bene. I beni che non soddisfano questi requisiti minimi non hanno diritto al trattamento speciale previsto dal trattato di libero scambio. Lo scopo di un’area di libero scambio è di ridurre le barriere allo scambio tanto da far crescere il commercio come risultato della specializzazione economica, della divisione del lavoro, e, soprattutto, attraverso la teoria e la pratica del vantaggio comparato. Quest’ultimo, teoricamente, porta a una crescita “vantaggiosa” per tutti i suoi membri. Il risultato netto sarà un incremento del reddito e in ultima istanza la salute e il benessere per tutti nell’area di libero scambio. Tuttavia, la teoria fa riferimento solo al benessere aggregato e non dice nulla riguardo alla sua distribuzione. È proprio su quest’ultima che si annidano le insidie e i pericoli del Ttip. I fautori della teoria del libero scambio, infatti, dichiarano che il guadagno dei vincenti supera le perdite dei perdenti. Il negoziato in corso, quindi, dovrebbe essere proprio lo strumento per massimizzare i guadagni e ridurre le perdite. Ma che cosa sta facendo l’Unione europea?



Abbondano la scarsità di informazioni provenienti dalla Commissione europea e un’eccessiva “cautela” da parte dei soggetti istituzionali coinvolti (sia da parte europea che statunitense). Si può allora ipotizzare la firma di un accordo cosiddetto a “scatola vuota”, su modello di quello firmato tra Unione europea e Canada, quando, durante un incontro con un membro del Gabinetto del Commissario per gli Affari interni, fu esplicitamente reso noto che al Bepa (Bureau of European Policy Advisers), formalmente incaricato di vegliare sui testi dell’accordo, si era invece in una situazione di stallo e confusione riguardo i contenuti del trattato.



La mancanza di trasparenza e comunicazione ha messo da subito in luce il fatto che i negoziati dovessero svolgersi in forma strettamente segreta, tesi che si è ampiamente confermata quando uno dei soggetti istituzionali direttamente chiamati in causa ci ha “svelato” il quadro e il reale piano d’azione dei negoziati. Sembrerebbe che i negoziati vengano portati avanti da un ristretto gruppo di lavoro (6-7 persone e nessun italiano) della Commissione europea con a capo Paul Nemitz, tedesco, direttore responsabile per i diritti fondamentali e la cittadinanza nella Direzione Generale Giustizia. Va da sé che il soggetto non è di certo stato scelto per le sue attuali mansioni: la propria nazionalità infatti testimonia di quanto l’accordo, da parte europea, sia di fatto a guida tedesca. Il signor Nemitz ha mandato di inflessibilità nel salvaguardare gli interessi europei nella gestione delle trattative, interessi però che riflettono in gran parte quelli della Germania, la quale, dopo aver negoziato bilateralmente le parti dell’accordo che tangono maggiormente i propri interessi, potrebbe lasciar scrivere il resto del trattato agli Stati Uniti.

Questa ipotesi è fortemente avvalorata anche dal fatto che l’unica Direzione generale della Commissione realmente chiamata in causa nelle trattative sarebbe quella del Commissario lussemburghese per la giustizia, i diritti fondamentali e la cittadinanza, Viviane Reding. Essendo il Lussemburgo un Paese notoriamente subordinato alla Germania, quest’ultima può agire senza incontrare resistenze, evitando allo stesso tempo l’imbarazzo di negoziare con un Commissario tedesco. Di fatto, questa architettura consegnerà definitivamente la guida dell’Europa nelle mani della Germania, la quale diventerà l’unico Paese europeo capace di “emanciparsi” dal vassallaggio statunitense, nel quale invece saranno definitivamente condannati gli altri paesi dell’Unione europea, insieme a tutto il sistema economico e industriale a essi collegato.

Entrando ulteriormente nel merito, sembrerebbe che il signor Nemitz sia l’unica persona autorizzata ad avere voce in capitolo per esporre le posizioni dell’Unione europea, tanto che durante le riunioni bilaterali Usa-Ue nessun membro del gabinetto Barroso è autorizzato a parteciparvi, se non altro come uditore. Inoltre, esisterebbe una comunicazione interna della Commissione che fa esplicitamente riferimento ai rapporti con gli organi di stampa, i quali dovrebbero essere tenuti il più possibile all’oscuro di quanto sta accadendo in questo frangente dei negoziati.

Proprio su quest’ultimo punto si basa infatti tutta l’architettura di una vera e propria messa in scena a discapito della società civile. Esisterebbe infatti, da ambo i lati, un vero e proprio apparato di facciata con il compito di apparire come il vero organo negoziale. In effetti oggi, sulla piazza di Bruxelles, quello che traspare dagli organi di stampa, dai comunicati ufficiali della Commissione, dai Think Tank e dalle altre associazioni governative e non, è il quadro di un accordo che prevede tre gradi di avanzamento (lo scambio di idee, i negoziati, il trattato) durante i quali tutta la società civile (comprendente il mondo dell’industria), le nazioni dell’Unione e lo stesso Parlamento europeo sono chiamati a dare il proprio contributo nei preparativi per la stesura del futuro accordo, che a loro avviso, non dovrebbe avvenire prima di due o tre anni.

Ci troveremmo dunque di fronte a una “macchina” creata ad hoc, con tanto di negoziatore “fantoccio”, in questo caso lo spagnolo Ignacio Garcia Bercero, direttore nella Direzione generale Trade (l’unica che sarebbe teoricamente legittimata a seguire l’accordo), il quale partecipa attivamente a dibattiti e conferenze sul tema, predicando l’assoluta trasparenza della Commissione, guardandosi però bene dall’accettare incontri faccia a faccia con le parti interessate. Tutto ciò sarebbe stato messo in piedi per evitare interferenze nei reali negoziati che stanno invece procedendo velocemente su un binario parallelo e che dovrebbero vedere la luce, quanto meno in una prima bozza vincolante però per il futuro, entro la fine del 2014, sotto il semestre di presidenza italiano.

Proprio l’Italia, che soffre di una politica nazionale di autoesclusione, non potrà purtroppo contare su quei ruoli chiave che le avrebbero invece permesso di vigilare o quanto meno chiedere conto del lavoro che viene portato avanti così segretamente dalla Commissione. La stessa Direzione generale industria, guidata dal vice presidente della Commissione Antonio Tajani, non ha nessuna voce in capitolo, in quanto negli anni il vice presidente si è concentrato più su temi legati allo spazio e al turismo marginalizzando cosi il suo coinvolgimento su tematiche come quella degli accordi di libero scambio, che sono state fatte proprie da altri Commissari.

Il pericolo per il nostro Paese sarebbe quello di essere usato come cornice per la firma di un accordo del quale in sostanza nessuno conosce i contenuti. Consci della propensione che hanno i politici per la cosiddetta “foto di gruppo” e la spasmodica ricerca da parte del presidente Barroso di un’alta carica da ricoprire dopo la scadenza del suo mandato, siamo portati a credere che dopo l’elezione del nuovo Parlamento europeo, con i deputati appena insediati e già distolti all’attenzione dalla pausa estiva, si possa giungere a una firma dell’accordo in tempi brevi. Pensiamo sia dunque indispensabile per l’Italia non farsi prendere dall’euforia della firma di una sorta di “nuovo trattato di Roma”, bensì, sotto il proprio semestre di presidenza, pretendere che gli accordi sul Ttip siano scritti anche ascoltando la voce dell’Italia.

La difficoltà è che l’Ue e i suoi stati membri procedono a “porte chiuse”, in segreto, con responsabilità mai chiaramente indicate (in Italia sembra che sia coinvolto Fabrizio Pagani, ex funzionario Ocse poi consigliere economico dell’ex premier Enrico Letta). Le delegazioni statunitensi hanno schierato più di seicento consulenti delegati dalle multinazionali che dispongono di un accesso ai documenti preparatori ed ci sono anche dei rappresentanti delle amministrazioni. Se l’accordo verrà firmato così come è stato concepito fino a oggi, dovremo aspettarci uno sconvolgimento degli assetti economici, monetari e industriali per come li abbiamo sempre concepiti a favore degli Stati Uniti. A oggi, nessuno è capace di calcolarne le ricadute sociali ed economiche, poiché gli studi effettuati sulla materia sono stati tutti finanziati dalle lobby della grande industria. Non è detto certo che vivremo peggio ma sicuramente in modo diverso.

Il nuovo governo di Matteo Renzi, con il ministro Giancarlo Padoan che proviene proprio da incarichi al Fmi e all’Ocse, incontrerà Obama in visita a Roma, dopo Bruxelles, il prossimo 27 marzo. Le lodi americane per “l’innovatore” Renzi non si contano, dai fratelli John e Tony Podesta all’ambasciatore John Phillips, dagli uomini della General Electric, Paolo Fresco e Nani Beccalli, dalle corazzate finanziarie come i fondi di Soros alla Goldman Sachs, fanno presagire che se Renzi manterrà le “promesse” e se Padoan farà quel che “sa che deve fare”, l’Italia potrebbe avere un ruolo centrale nella nuova Europa transatlantica.

In questo contesto saranno cruciali le decisioni del nuovo governo per le nomine dei circa 600 amministratori e manager delle società partecipate dal Tesoro, per il ruolo della Cassa depositi e prestiti, e per il futuro delle quote pubbliche di partecipazione. Se grandi aziende strategiche, come Eni, Finmeccanica ed Enel potrebbero avere tutto da guadagnare da una maggiore integrazione con gli Usa, tutto dipenderà dalla capacità del governo italiano di tutelare l’interesse nazionale in sede europea e nel negoziato transatlantico per il Ttip. L’alternativa è, come spiegavamo prima, tra essere tra i vincenti o i perdenti della zona di libero scambio transatlantica.