Nel giugno del 1981 la Federal Reserve alzò il costo dei Fed funds, oggi tra lo 0% e lo 0,25%, a un picco del 20%, mentre il prime rate salì addirittura al 21,5%, ai massimi di sempre. In questo modo Paul Volcker, l’ultimo presidente della Fed democratico prima dell’investitura di Janet Yellen, scatenò la sua guerra vittoriosa contro l’inflazione che aveva raggiunto il picco del 13,5% per poi scendere al 3,2% nel 1983. Il prezzo fu l’impennata della disoccupazione salita al 10% prima di imboccare la via della discesa.



Il precedente storico non ha molte analogie con la situazione attuale. Certo, Janet Yellen è un’economista liberal, come Volcker. Al suo esordio alla guida del Fomc, il comitato monetario della Federal Reserve, ha riservato una brutta sorpresa a Wall Street, che dava per scontato un atteggiamento da colomba sul fronte dei tassi, con una conferma delle armi della politica monetaria espansiva a favore della piena occupazione. Al contrario, Janet Yellen ha chiuso la sua prima conferenza stampa con un annuncio dall’effetto bomba: sei mesi dopo la fine del tapering (cioè degli acquisti della banca centrale sul mercato) i tassi torneranno a salire. Di qui la frenesia degli operatori.



La Yellen si riferiva all’approvazione dell’ultima tranche di tapering? In quel caso l’ora x dovrebbe scattare ad aprile. Ma il presidente della Fed, forse, si riferiva alla fine materiale degli acquisti, cioè il gennaio 2015, per cui il primo aumento dei tassi dovrebbe scattare nel luglio dell’anno prossimo. È ragionevole pensare, in ogni caso, che a Natale 2015 i tassi saranno attorno all’1%, con un impatto “morbido” sui T-bond decennali attorno al 3,5% contro un tasso di inflazione in ripresa al 2%, quel che basta a scacciare la pura della deflazione. Niente di paragonabile alle condizioni in cui si trovò a operare Volcker per scacciare il fantasma della stagflazione.



Eppure, la sfida della Fed non è meno difficile oggi che 33 anni fa. La vera analogia sta nel fatto che la finanza mondiale opera oggi ancor di più ieri in terra incognita. A Janet Yellen, artefice del Quantitative easing tanto quanto Ben Bernanke, tocca il compito di disinnescare la “bomba” della liquidità immessa nel sistema in questi anni per scongiurare il grande default dell’economia. Ci si muove su un terreno sconosciuto, perché mai nella storia si sono accumulate, negli Usa ma anche in Giappone e altrove, tante munizioni di carta che rischiano di vanificare il ruolo della politica monetaria. Ne sa qualcosa la Cina, alle prese con le conseguenze del boom della finanza ombra, ovvero la liquidità accumulata fuori dal sistema bancario e che ha alimentato impieghi distorti nell’edilizia come in altri settori.

A complicare il compito della Yellen rispetto a quello di Volcker in età reaganiana contribuirà anche l’estrema complessità del quadro economico. Ci si sta rendendo conto che il mondo è molto cambiato dal 2007, l’ultimo anno buono prima della grande crisi. La tecnologia, in particolare, ha cambiato le regole del gioco: interi settori economici sono stati sconvolti dalla rivoluzione vuoi dei modi di produrre che dei contenuti. Molti mestieri e posti di lavoro sono stati bruciati dall’economia digitale. Si è assistito all’outsourcing da Ovest a Est, ora si registra il fenomeno inverso. Ma, come nota il New York Times, la globalizzazione ha sì migliorato la vita di molti paesi emergenti, ma ha tradito le promesse nei confronti delle classi medie a Ovest. Oggi, poi, il malcontento si espande anche in Cina o Brasile perché la ricchezza non tocca più i nascenti ceti medi.

Dietro la questione dei tassi, insomma, si cela una questione politica: come ripartire le risorse nel futuro, senza dimenticare peraltro che l’ambiente inquinato reclama i suoi diritti e che lo sviluppo delle tecnologie digitali, per ora, non ha permesso un aumento di produttività paragonabile alla nascita dell’elettricità. Cosa c’entrano i tassi? C’entrano, ci spiega Alessandro Fugnoli di Kairos: “Fino a tempi recentissimi il consenso era che, dopo cinque anni di crescita globale, esiste ancora nel mondo una tale quantità di risorse inutilizzate da rendere impensabile l’inflazione anche in presenza di un’espansione molto più forte di quella attuale e, per di più, per un periodo esteso. Parliamo in pratica di quella che i demografi chiamano la speranza di vita”.

Una certezza che sta venendo meno. Dagli ultimi studi in Usa sta emergendo che una metà dei disoccupati, quelli che hanno perso il lavoro dopo il 2008 e non l’hanno più ritrovato, sia da considerare perduta per sempre. Per la prima volta nella storia il problema classico del riassorbimento della disoccupazione dopo una recessione si intreccia e sovrappone con l’invecchiamento della popolazione e con il fatto che il progresso tecnologico rende improvvisamente obsoleti così tanti profili professionali.

L’economia non potrà contare, se l’analisi si rivelerà corretta, su un esercito di braccia e di cervelli da reinserire nella macchina produttiva grazie a una fase d’avvio all’insegna della moderazione salariale e della prevalenza della domanda di lavoro sull’offerta: l’uscita dalla recessione dovrà fare i conti con l’invecchiamento della popolazione e con il fatto che il progresso tecnologico rende improvvisamente obsoleti così tanti profili professionali del recente passato. Per questo motivo, si sono accorti alla Fed, calano in parallelo sia il tasso di disoccupazione che il numero degli americani che cercano lavoro. Per questo anche la colomba Yellen, che ha seguito da vicino gli studi sulla materia della Fed di San Francisco (l’ala sinistra della politica monetaria americana), ha dovuto prendere in considerazione un’accelerazione dell’uscita da Qe e aumento dei tassi.

Il rischio, infatti, è di farsi trovare spiazzati da una ripresa dell’inflazione legata a richieste di aumenti salariali da parte della forza lavoro con i requisiti richiesti, una minaccia che potrebbe far esplodere la santabarbara dell’inflazione alimentata dalle migliaia di miliardi di dollari immessi nel sistema. Non è una prospettiva allegra per le Borse e per i bond, dopo anni di grande euforia. Non è nemmeno una prospettiva inevitabile. Ma va presa sul serio: la Fed non intende farsi cogliere in contropiede.

Che cosa cambia per noi europei? Nel breve, il nuovo scenario è positivo: la previsione di tassi più alti rafforza il dollaro a vantaggio dell’export del Vecchio continente, Italia in testa. Nel tempo, però, l’inversione di rotta americana comporta un rischio per la navicella italiana. E torniamo indietro con l’orologio della storia a quel fatidico 1981. La politica italiana, all’epoca, non seppe cogliere il cambio di rotta di Washington. L’aumento dei tassi innescato da Volcker attraversò ben presto l’Oceano Atlantico.

Sarebbe stato saggio limitare la spesa e alzare i tassi, confidando nella successiva ripresa. Al contrario, complici alcune scelte (il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro che diede mano libera ai governi dell’epoca) e la tragedia del terremoto in Irpinia (che scatenò un’orgia di spesa pubblica), il debito pubblico salì come mai era successo nella storia repubblicana. E l’escalation non si fermò più, nonostante il felice trend delle entrate fiscali legato all’Iva.

Che lezione trarre dalla storia? L’Italia ha un anno di tempo da sfruttare per avviare, in una situazione ideale dal punto di vista dei tassi e dell’afflusso di capitali, un trend di risanamento della finanza pubblica ma anche della riqualificazione delle risorse di lavoro adeguate per affrontare la competizione internazionale. Inutile illudersi che basti un po’ di spesa pubblica in più per rimettere in sesto la baracca.