Il Rapporto Cottarelli (di cui la stampa ha dato ampie, ma spesso fuorvianti, anticipazioni) sarà all’attenzione del Governo al rientro del Presidente del Consiglio e di alcuni Ministri chiave dal Consiglio europeo. Ho avuto modo di leggere il testo integrale del documento: è una tavola di bordo, nello stile della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, che offre ampie alternative alla scelte politiche. Prima che siano stati redatti i provvedimenti specifici (decreti legge, disegni di legge), può essere utile fornire alcune indicazioni su come leggere il testo.
La revisione della spesa (varrebbe la pena chiamala così) dovrebbe essere il metodo per giungere a un miglioramento della quality of spending – parallelo di Scienza delle finanze della quality of mercy con cui, travestita da avvocato, Porzia scioglie i vari nodi ne “Il mercante di Venezia” di William Shakespeare. Ciò comporta definire obiettivi che non si limitino alla riduzione della spesa complessiva, anche se tale riduzione deve essere uno degli obiettivi primari e improcrastinabili.
A tale scopo la fine della sprecopoli deve diventare centrale a riduzioni e riallocazioni. Non molti anni fa è stato pubblicato uno studio condotto dalla London School of Economics (Lse), in collaborazione con l’Imperial College e il CEIS dell’Università di Roma, Tor Vergata. In Italia è disponibile come CEIS Working Paper N. 115. Si tratta di un’analisi empirica che, dopo una premessa teorica e una rassegna della letteratura, passa al setaccio la spesa delle pubbliche amministrazioni per acquisti di beni e servizi nel periodo 2000-2006, differenziando tra “sprechi attivi” (ossia per il tornaconto individuale – dalla corruzione alla clientela in tutte le sue forme e guise) e “sprechi passivi” (dovuti al lassismo e alla lentocrazia burocratica).
Si può argomentare di un comparto che riguarda meno dell’8% della spesa pubblica; è, però, quello caratterizzato da maggiore discrezionalità (rispetto, ad esempio, alla spesa per il personale, per le pensioni, per la sanità e per altri trasferimenti a famiglie e imprese). Gli “sprechi passivi” sono l’83% del totale (ciò smentisce le chiacchiere giornalistiche su sprecopoli) e devono essere affrontati cambiando regole (semplificazione, abrogazione automatica di norme e circolari dopo un certo numero d’anni dalla loro applicazione). Gli sprechi (“attivi” e “passivi”) sono di peso principalmente nell’apparato centrale dello Stato – in breve i Ministeri pagano, mediamente, il 22% in più degli enti locali per beni e servizi analoghi. Il controllo sociale è l’arma principale per contenerli (e tale controllo è più forte a livello locale che centrale).
Interessante notare che a conclusioni simili si è giunti, non guardando specificatamente l’Italia ma esaminando gli Usa, nella lontana Yale in uno studio pubblicato nella Yale Law and Policy Review: il succo del lavoro che coniuga due discipline (economia e diritto) consiste nel proporre di utilizzare, in modo sistematico, l’analisi costi-benefici a fini deliberativi delle poste di spesa (ossia decisionali) e non meramente informativi
Una legge della nostra Repubblica (la legge 144/99) la prevede per l’investimento pubblico -unitamente alla creazione d’unità, nuclei, gruppi di valutazione in tutte le amministrazioni. Occorre applicarla con rigore ed estenderla a tutte le maggiori partite di spese (come fu tentato nel 1984 dal Governo Craxi con articolo del ddl di legge finanziaria, eliminato durante l’iter parlamentare). Non solo il Cnel ha predisposto e approvato all’unanimità oltre un anno fa un primo documento di Osservazioni e Proposte per la valutazione e selezione della spesa pubblica, ma lungaggini burocratiche ne stanno bloccando la prosecuzione.
Infatti, non basta tagliare le spese pubbliche con bassa utilità per la collettività. Occorre migliorare la qualità della spesa sia complessivamente, sia nei singoli comparti. Il primo passo consiste in un migliore equilibrio tra spese pubbliche di parte corrente per consumi collettivi e spesa pubblica in conto capitale tale da attivare, in fase di cantiere, capacità produttiva non utilizzata (un tasso di disoccupazione al 12% delle forze lavoro indica che in Italia ce n’è, purtroppo, a iosa) e di aumentare la capacità produttiva multifattoriale grazie al miglioramento del capitale fisso sociale.
In effetti, secondo numerosi economisti, sarebbe necessario allo scopo un forte aumento dell’investimento pubblico, tanto più che non fanno difetto progetti esecutivi pronti a essere immediatamente cantierabili. Tuttavia, le restrizioni al bilancio dello Stato e degli Enti locali, definite nel quadro degli accordi europei in materia di moneta unica, sono all’origine di una contrazione degli investimenti pubblici sia in percentuale del Pil, sia in termini assoluti; in percentuale del Pil, la spesa pubblica in conto capitale è passata dal 3,5% negli anni Sessanta e Ottanta (con una leggera contrazione negli anni Settanta) al 2% in media nel primo decennio del nuovo secolo.
A tal fine il Rapporto Cottarelli non deve essere una una tantum Seguendo il programme de rationalization des choix budgetaire adottato con successo in Francia e la normativa varata negli Stati Uniti, all’inizio degli anni Ottanta (l’unica legge federale della prima Amministrazione Reagan da allora mai cambiata), occorre attuare la normativa sulla valutazione della spesa in vigore dal 1999, e aggiornarla seguendo le Osservazioni e Proposte formulate dal Cnel e concentrare la definizione delle procedure, nonché la vigilanza sulla loro attuazione, nella Ragioneria Generale dello Stato. Tanto più che in base a una legge del 2007 e un concorso pubblico essa dispone di almeno 40 dirigenti con dottorati di ricerca italiani e stranieri, specializzati nella valutazione della spesa.
Inoltre, dato che da anni la Scuola nazionale della Pubblica amministrazione ha, di fatto, smesso di fare corsi in questa materia, la funzione deve essere affidata urgentemente alla Scuola Superiore di Economia e Finanza – istituto del Ministero dell’Economia e delle Finanze – aprendo i corsi a dipendenti di altre amministrazioni centrali e delle Regioni, in modo di avere un metodo uniforme per combattere sprechi “attivi” e “passivi” ed esaltare the quality of public spending al fine di contribuire a riassetto strutturale della finanza pubblica e allo sviluppo dell’economia.