Passato ormai più di un mese dall’entrata in vigore della l. n. 5/2014 di conversione del d.l. n. 133/2013, la vicenda della riforma di Bankitalia, dopo aver dato luogo a specifici rilievi della Commissione europea (dei quali si è dato conto su queste pagine e che l’Italia pretenderebbe di aver tacitato con qualche riga di un comunicato stampa emesso congiuntamente dall’Istituto centrale, dalla Consob e dall’Ivass, che riprende la comunicazione n. DIE/0018881 del 10 marzo 2014, di tono e contenuti palesemente interlocutori, indirizzata dalla Consob a via Nazionale, per rispondere a un quesito posto da Palazzo Koch) continua a manifestare, anche sotto il profilo dell’applicazione delle relative norme, gravissime criticità, tali da far sì che la loro esecuzione travalichi i limiti dell’interpretazione, per quanto di essa voglia assumersi un’accezione ampia.



Lo si apprende dalle notizie di stampa (si veda, con ampia analisi, S. Tamburello sul Corriere della Sera del 17 marzo 2014), dalle quali appare altresì come a tali questioni stiano mettendo mano direttamente i destinatari del provvedimento (e innanzitutto la stessa Bankitalia), in (difficile) dialogo con le autorità comunitarie. Camere e Governo tacciono.



Per parte sua, la Banca d’Italia – con un attivismo di sostegno che, per la verità, sembra sottendere un favor per la riforma eccedente rispetto al ruolo di neutralità tecnica che pure viene invocato a connotazione dell’Istituto – riteneva forse di aver detto parole definitive con una sua nota del 3 febbraio scorso, nella quale, con più di una approssimazione giuridica, si era affrettata a un’ennesima difesa “a spada tratta” (anche) della legge di conversione (che pure, sia detto per inciso, aveva modificato taluni aspetti qualificanti del documento elaborato, per conto della Banca medesima, da una commissione di esperti).



E così, omesso ogni riferimento alla previa situazione di illegittima detenzione delle quote in capo ai privati e senza motivare in alcun modo la ripetuta affermazione secondo cui l’appartenenza del capitale allo Stato sarebbe stata suscettibile di compromettere l’indipendenza di Palazzo Koch e avrebbe richiesto “un complesso intervento legislativo a protezione di tale indipendenza” (e ciò benché il nostro ordinamento conosca già diversi modelli di autorità amministrative sottratte all’influenza del circuito di indirizzo politico), continuando nell’infondata asserzione che, per attuare la l. n. 262/2005, “lo Stato avrebbe dovuto indennizzare i partecipanti, i quali vantavano diritti legalmente protetti” (mentre la loro partecipazione contrastava con l’art. 20 R.D. n. 385/1936, in allora vigente), la Banca d’Italia aveva individuato alcuni dei punti di maggiore rilievo positivo della riforma nella limitazione della percentuale del capitale detenibile da ciascun quotista (con conseguente, predicato, ampliamento della platea), nella revisione delle regole di attribuzione dei dividendi (che non assumono più, a base di calcolo, le riserve statutarie: sul punto, via Nazionale afferma che ciò contribuirebbe a salvaguardare la natura pubblicistica delle riserve medesime, in quanto frutto della funzione monetaria, degradata, però, nello stesso documento, e in contrasto con quanto sostenuto in precedenza, ad attività di interesse pubblico), nell’aumento del patrimonio cosiddetto “di migliore qualità” delle banche (per effetto della maggiore aderenza del nuovo valore attribuito al capitale alla realtà dei fatti), nonché nell’eliminazione del previgente meccanismo di alimentazione automatica delle riserve mediante il loro rendimento (ma le riserve non erano patrimonio pubblico?), con l’effetto di incrementare l’ampliamento dell’utile di esercizio e, quindi, della retrocessione allo Stato.

Non interessa qui soffermarsi nell’analisi critica di tali asserzioni: abbiamo già avuto modo di occuparcene, anche in questa sede, e non pare davvero che le nuove “deduzioni” della Banca centrale possano indurre a mutare opinione. Basterà dire che, tra le altre proposizioni non condivisibili, ovviamente sub specie iuris, si continua a perpetrare l’equivoco che la riforma non avrebbe comportato alcun depauperamento delle casse pubbliche, come sarebbe comprovato dall’immodificato risultato della somma tra capitale e riserve, quasi che non fosse percepibile da chiunque che una cosa è la somma dei due elementi (ove, peraltro, la diminuzione dell’addendo costituito dalle riserve, stando proprio a quanto scrive la Banca in ordine alla loro natura, dà luogo, appunto, a un depauperamento pubblico), altro è invece il titolo di appartenenza del primo elemento di questa, di tal che il passaggio, determinato, per quanto ci si sforzi di mascherarlo, dal d.l. n. 133/2013, abrogando la normativa del 1936 e quella del 2005, dalla sfera pubblica a quella privata non può essere letta se non in termini di impoverimento della prima. Mette conto viceversa segnalare che la scarsa attendibilità sostanziale delle scelte “patrocinate” da via Nazionale emerge, nuovamente, dalla vigile attenzione critica delle istituzioni europee.

Dopo la Commissione, l’Esma (ossia la European Securities and Markets Authority, organismo che vigila sul settore mobiliare e nel cui Board of Supervisors siede anche la Consob) ha sollevato dubbi circa la legittimità dell’iscrizione della plusvalenza determinata, a vantaggio dei partecipanti al capitale di Bankitalia, dalla rivalutazione di quest’ultimo, nel loro conto economico: rilievo che ha messo, tra l’altro, in serio dubbio il provento fiscale riveniente dalla plusvalenza in parola e al quale si era fatto, da più parti, riferimento a (pretesa) dimostrazione dei vantaggi della privatizzazione.

Sul punto, la partita è stata per ora risolta in via, si direbbe, cautelativa dalla Consob, secondo cui, “in ragione dei complessi profili di unicità e atipicità che caratterizzano l’operazione” e “considerato che la modalità di contabilizzazione della stessa non è espressamente disciplinata dai principi contabili internazionali” e avvertendo che “sono state effettuati e sono in corso approfondimenti presso tutte le sedi nazionali e internazionali”, gli amministratori sarebbero tenuti “in sede di approvazione del bilancio 2013”, “sulla base del più completo quadro informativo disponibile”, ad adottare “la modalità di contabilizzazione che ritengono più appropriata a soddisfare i criteri previsti dai principi contabili internazionali”. Su tale precario fondamento dovrebbe farsi luogo al pagamento, graduale (in tre anni), delle imposte sulle plusvalenze.

La stampa ha parlato di definizione della questione, atteso l’accertamento, con la suddetta nota della Consob, di un dovere a carico dei quotisti in ordine al sistema di contabilizzazione: ma la valutazione non convince, poiché, a ben vedere – così come emerge dal chiaro tenore letterale del documento della Consob – il dovere è tale solo nominalmente o, se si vuole, è un potere il cui esercizio è necessario, fermo però restando che la scelta del concreto modo di adempiere al dovere è rimessa agli amministratori dei soggetti partecipanti al capitale. Ma, com’è stato puntualmente avvertito (cfr. S. Tamburello nell’articolo cit.), restano comunque da sciogliere una serie di nodi.

In primo luogo quello concernente la possibilità o meno, per le banche partecipanti, di computare le quote rivalutate nel patrimonio di vigilanza del 2013, da sottoporre all’Asset quality review e allostress test: la posizione di via Nazionale sul punto è negativa, in forza del filtro prudenziale elaborato dall’Istituto centrale, che fa divieto di includere nel ridetto patrimonio le plusvalenze non realizzate. Tale soluzione – che asseconda, peraltro, l’applicazione, a questo tipo di plusvalenze, di un regime fiscale agevolato – sembrerebbe doversi al tentativo di evitare che le aziende di credito europee, e soprattutto quelle tedesche, sollevino eccezioni in merito alla natura dell’operazione e, in particolare, della sua qualificabilità come aiuto di Stato.

Tuttavia lo stesso criterio di prudenza consente il computo in parola, suddividendo la progressiva inclusione del valore in cinque anni (dal 20% del 2014 sino al 100% del 2018). Il vincolo poi non astringe i proventi rivenienti dalla vendita delle quote eccedenti il limite del 3% del capitale: in tal caso le plusvalenze realizzate, ancorché derivanti dalla rivalutazione del capitale di Bankitalia, possono essere immediatamente incluse nel patrimonio di vigilanza.

In secondo luogo, è significativo che si consideri problematica la valutazione delle quote che, stante l’obbligo, gravante sui titolari di quote eccedenti il ridetto limite percentuale, di vendere quelle in eccesso, questi dovranno immettere sul mercato (tanto più che la l. n. 5/2014 consente alla stessa Banca d’Italia di proporsi quale acquirente): la risposta più semplice – che cioè il valore debba essere calcolato in ragione dei dividendi che le partecipazioni possano generare – pare non soddisfare gli ambienti economico-finanziari (si veda, nuovamente, S. Tamburello). E si capisce: da tempo andiamo ripetendo che, con ogni probabilità, il valore de quo verrà parametrato sull’intero patrimonio della Banca centrale, ivi comprese le riserve auree (che, a tacer d’altro e proprio a cagione della [giuridicamente infondata] affermazione dell’Istituto centrale, secondo cui esse sarebbero oggetto di un suo diritto dominicale, contribuiscono a comporre e perimetrare l’“area” sulla quale incidono, ovviamente con forme e modalità variamente articolate, i diritti di partecipazione).

Il quadro che emerge dal breve excursus sin qui tratteggiato segnala le gravissime difficoltà che, quasi per reazione a un corpo estraneo, si determinano nell’ordinamento giuridico (ovviamente nella tessitura sistematica che positivamente lo connota), allorquando vi si voglia introdurre un plesso normativo singolare (un istituto di diritto pubblico partecipato quasi esclusivamente da soggetti privati), derogatorio di regole e principi fondamentali.

E vale la pena rammentare – per prevenire le obiezioni di chi ritiene che la Costituzione del 1948 si possa ritenere indifferente al tema che ne occupa – che il nucleo dell’assetto costituzionale è dato anche da quello che Alberto Predieri chiamava ipertesto, ossia da riferimenti, prodotti anche per reciproca reazione tra istituti e norme, che, pur quando esterni rispetto al perimetro verbale della Carta, sono però da questi implicati, per assimilazione e per differenza, sia per ragioni storiche – “il linguaggio costituzionale – scriveva Giorgio Berti (voce Sovranità negli Annali dell’Enciclopedia del diritto, I, 2007) – come qualsiasi forma di espressione collettiva, proviene da un corso storico e cioè dal complesso delle vicende attraversate da un popolo caratterizzato dall’appartenenza territoriale, ed espresse secondo una tavola di concetti via via costruita dalla storia” -, sia per ragioni di congruenza dell’organizzazione statale, che è assetto “strategico” di concretamento della sovranità popolare, la quale ultima, con buona pace dei detrattori, non ha, nell’art. 1 Cost., mera funzione di preambolo decorativo o augurale, ma esprime una vera e propria norma giuridica, che contiene “valutazioni, comandi, scopi” e relativi principi e richiede, pertanto, un coerente assetto dei poteri e delle funzioni statali.

In tale ottica, si manifesta evidente la difficoltà di trattare le partecipazioni al capitale della Banca centrale – l’attrazione della quale nell’orbita del diritto pubblico è un portato essenziale del moderno Stato di diritto e, quindi, dei principi sui quali si incardina la sua costruzione – quale assetprivato (i paragoni con altri paesi, liquidati in poche righe, a scopo, sembrerebbe, più di suggestione che di argomento, non colgono, neppure in tale veste e grosso modo, nel segno, perché le differenze prevalgono di gran lunga sulle “assonanze”. Senza dire che la comparazione per campioni individuali ed estratti senza analisi del più ampio contesto si risolvono altresì in “falsi storici”).

La recente riforma della Banca d’Italia, caratterizzata da molte ombre, ideata al di fuori delle Assemblee parlamentari – forzate, com’è noto e come si è ben visto, a rincorrere il temine di conversione del d.l. n. 133/2013, vanificando purtroppo l’istruttoria compiuta, ad esempio., dalla 6° Commissione permanente del Senato – sta già dando pessima prova, contraddittoria persino rispetto ai fini perseguiti: non è un vanto nazionale che anche un simile provvedimento normativo si collochi nella dilagante tendenza a trattare questioni così delicate e di così forte impatto sull’assetto della collettività in modo così superficiale, ispirato più a “formule” che all’attenta ponderazione del dato giuridico.

Ma il diritto – avrebbe detto Salvatore Satta – è un Signore con la maiuscola e non tollera operazioni sbrigative, se non a prezzo di condurre a risultati incalcolabili nella loro effettiva portata e irrazionali (che è quanto dire non giuridici). Le norme giuridiche – come hanno perfettamente dimostrato autorevolissimi studiosi di ispirazione istituzionista – sono “unità di sistema” generatrici di dinamiche che, divenendo subito eteronome rispetto al loro autore, si traducono in impulsi che non possono facilmente arrestarsi. Ne è una dimostrazione eloquente la perdurante crisi dell’ordine giuridico europeo, che, come ha dimostrato limpidamente Giuseppe Guarino, è stata determinata, in larga parte, da un improvvido (e illegittimo, perché contrastante con i Trattati) atto normativo, ossia il regolamento n. 1466/1997.

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