Matteo Renzi avrebbe potuto portare a casa (per dirlo in termini colloquiali) qualcosa di più se avesse meglio curato la comunicazione. Sembra un’affermazione paradossale in quanto viene generalmente riconosciuto che il sapere comunicare agli elettori e agli italiani in generale è uno dei punti forti del Presidente del Consiglio in carica. Nelle conferenze stampa, ad esempio, è abilissimo a sapersi rivolgere non tanto ai giornalisti in sala quanto al “suo” popolo e anche al popolo “degli altri”, sperando di attrarne parte tra le sue schiere. Tuttavia, il suo modo di comunicare – fatto di frasi brevi, di battute veloci, di impegni forti e di neologismi anche butti ma che paiono piacere (come l’atroce termine “cronoprogramma”) e accompagnato dall’ostentazione quasi di una ricca strumentazione elettronica – è generalista (nonché particolarmente adatto per gli italiani stanchi e stufi di “politichese”), mentre i pubblici sono fortemente differenziati.
Non occorre conoscere la teoria economica dell’informazione, aver studiato semiotica, o avere una laurea in Scienze della comunicazione. Basta leggere “Knock, ovvero il trionfo della medicina”, commedia di Jules Romains che venne rappresentata la prima volta nel 1923 e che nei quattro anni che seguirono venne messa in scena circa 1400 volte solamente a Parigi. Oppure vedere il film del 1933 magistralmente interpretato da Louis Jouvet oppure ancora la vecchia edizione televisiva con Alberto Lionello come protagonista. Knock, piccolo medico di provincia, giunto in un villaggio in cui la popolazione godeva ottima salute riesce a convincere uno e ciascuno degli abitanti di avere bisogno di lunghe e frequenti cure mediche (ovviamente a pagamento). Il segreto consiste nel comunicare in modo differente con ciascun residente del paese.
In effetti, Renzi è tornato a mani vuote da Bruxelles (non ha neanche ottenuto la golden rule per gli investimenti finanziati con i fondi strutturali europei) perché avrebbe dovuto dire ai suoi partner europei quello che ha detto agli italiani prima di partire per il Consiglio di Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea e, di converso, dire agli italiani quanto ha invece detto alle sue controparti nel massimo organo di governo dell’Ue.
Nell’era della tecnologia dell’informazione e delle comunicazioni, i partner sanno in tempo reale ciò che Renzi dice in patria ai suoi compatrioti. Alla Commissione europea non piace certo sentire dire che tra breve andranno tutti a casa (o verranno rottamati) per essere sostituiti con leader “più moderni” e che comprenderanno meglio le esigenze dei cittadini europei. Piace ancor meno ascoltare un Capo di governo che definisce, parlando ai suoi concittadini, “anacronistico” quel vincolo all’indebitamento pubblico (non superare il 3% del Pil) e quel programma di riduzione del rapporto tra stock di debito e Pil che a Bruxelles dice di volere in ogni caso rispettare.
Renzi sarebbe stato più efficace se avesse sollevato al Consiglio europeo il nodo dell’“anacronismo” del Trattato di Maastricht (a cui si stanno mettendo toppe di varia natura e colore) e avesse delineato la possibilità di iniziare, nel semestre in cui l’Italia ha la presidenza degli organi di governo Ue, un “grande negoziato” per aggiornare il trattato in modo complessivo e sistematico alla luce e dell’esperienza e delle mutate condizioni dell’economia internazionale. Avrebbe trovato più di un alleato nel seguire questa proposta e sarebbe rientrato da protagonista a Roma, dove avrebbe potuto insistere con maggiore credibilità sulla necessità e urgenza di accelerare le riforme.
Forse sarebbe riuscito a ottenere impliciti segnali di tolleranza in materia di “sforamenti” da attribuire a investimenti cofinanziati con l’Ue e ben selezionati per favorire l’aumento dell’occupazione dei fattori produttivi e della loro produttività nel medio e lungo. Non avrebbe dato l’impressione, a diversi partner europei, di essere “ambiguo” e di meritare una buona dose di scetticismo.