Quando lavoravo a Londra, abitavo a Ealing, un quartiere residenziale nella zona ovest della città chiamato anche “Polonia d’Inghilterra”, per la grande comunità di immigrati di quel Paese che vi risiede. L’altro giorno, un amico che ancora abita là mi ha telefonato e, parlando del più e del meno, mi ha detto una cosa che mi ha fatto gelare il sangue: «Ma sai che un sacco di polacchi ha ricevuto la cartolina precetto come riservisti dal loro ministero della Difesa?». Ho terminato la telefonata e mi sono messo alla ricerca di conferma, pur essendo quasi certo che fosse vero, sia perché del mio amico mi fido, sia perché Ealing è davvero una piccola Polonia sotto l’Union Jack. Era vero: oltre 7mila lavoratori polacchi residenti in vari Stati d’Europa hanno ricevuto l’avviso di precetto come riservisti dell’esercito. Il ministero della Difesa di Varsavia ha sminuito l’accaduto definendolo “routine”, ma dopo un’altra telefonata al mio amico, ho avuto conferma da una decina di polacchi residenti a Ealing – e da loro parenti emigrati in altri Paesi dell’Ue – che una cosa del genere non era mai successa prima.



Il motivo è chiaro: quanto accaduto in Crimea sta mettendo in allarme rosso i paesi confinanti, tanto più dopo che Vladimir Zhirinovsky, politico ultra-nazionalista russo, ha inviato una lettera ai governi polacco, romeno e ungherese chiedendo che tengano referendum interni per decidere se annettersi o meno i territori ucraini di confine, tornando alla divisione dei tempi dal patto Ribbentrop-Molotov pre-Seconda guerra mondiale.



Cercando altre conferme alla notizia, mi sono poi imbattuto in una dichiarazione rilasciata pochi giorni fa dal primo ministro polacco, Donald Tusk, non meno inquietante: «Il mondo è sul precipizio di un conflitto, le cui conseguenze non sono prevedibili. Non tutti in Europa sono consci di questa situazione». Lo penso anch’io. Penso anch’io che si stia sottostimando la situazione attuale e le sue possibili conseguenze. Le quali, badate bene, sono destinate a cambiare gli assetti attuali comunque, senza per forza arrivare a un conflitto su ampia scala, magari con il deterrente nucleare pronto all’uso.



Arrivano infatti sempre maggiori conferme di quanto vi dicevo ieri: le sanzioni stanno cominciando a fare male a Vladimir Putin, il quale – conoscendolo – non tarderà a reagire. Da quando il Cremlino ha infatti mosso le truppe in Crimea, sono 70 i miliardi di dollari di capitali esteri fuggiti dalla Russia, dato di fatto che sta cominciando a far parlare molti analisti della possibile introduzione di controlli sui capitali nel Paese in tempi brevi, se l’emorragia non si fermerà. A confermare il dato ci ha pensato il vice-ministro dell’Economia russo in persona, Andrei Klepach, a detta del quale gli outflows hanno già toccato quota 65-70 miliardi di dollari, una cifra ben più alta di quanto ipotizzato e un chiarissimo segnale di nervosismo dei mercati per le sanzioni Usa.

E a darci la misura di come gli investitori abbiano fin qui gestito l’affaire ucraino ci pensa Bartosz Pawlowsky di Bnp Paribas: «È scioccante. I mercati sono stati estremamente compiacenti, si sono presi in giro da soli convincendosi che la Russia fosse invulnerabile perché ha oltre mezzo triliardo di riserve estere. In questo tipo di crisi, le riserve possono diventare pressoché irrilevanti». Anche Lars Christensen di Danske Bank sottolinea la gravità della situazione: «I controlli sui capitali sono un rischio serio, da non sottovalutare. Se dovesse accadere, questo sarebbe un danno permanente per l’economia russa, poiché anche una volta tolti, gli investitori non si dimenticheranno molto facilmente della loro introduzione». E prosegue anche l’offensiva energetica degli Usa, con l’Energy Department che lunedì ha annunciato il permesso all’export di gas naturale liquefatto dal complesso di Jordan Cove in Oregon, una mossa per aumentare l’offerta globale di energia, atto reso possibile dallo stock in surplus garantito agli Usa dal gas di scisto.

Un atto dichiaratamente politico, come ha confermato la senatrice Lisa Murkowski, membro chiave del Comitato per l’energia del Senato Usa: «Vista la situazione in Ucraina, questa licenza manda un segnale positivo ai nostri alleati». E non solo, visto che durante il weekend a Bruxelles si è tenuto un forum a cui ha preso parte il funzionario principale del comparto energia del Dipartimento di Stato Usa, Carlos Pascual, il quale ha detto chiaramente che grazie al gas di scisto gli Stati Uniti hanno 80 miliardi di metri cubi di gas “liberi” all’anno da girare all’Europa in caso di bisogno: attualmente l’Ue importa annualmente dalla Russia 130 miliardi di metri cubi di gas. E gli stessi leader Ue, al Consiglio tenutosi venerdì scorso, hanno deciso di ordinare ai loro staff di dar vita entro 90 giorni a piani energetici alternativi che contemplino l’abbandono totale dalla dipendenza russa, un chiarissimo segnale al Cremlino che l’oligopolio potrebbe finire, così come l’arma del ricatto.

Per il centro studi Brueghel, con sede a Bruxelles, l’Ue può ridurre a zero la sua dipendenza dalla Russia entro un anno, importando più gas dalla Norvegia, aumentando l’output olandese, utilizzando maggiormente e meglio i terminal di stoccaggio e riducendo i consumi: soltanto abbassando le temperature negli appartamenti di 1,5 gradi centigradi, l’Ue potrebbe risparmiare 20 miliardi di metri cubi di gas. C’è poi l’opzione finanziaria, non ancora sfruttata da Usa e Ue se non per Rossiya Bank. Il principale istituto del Paese, Sberbank, ha già tagliato a zero le previsioni di crescita dell’economia, la quale potrebbe precipitare in recessione durissima se la fuga di capitali dovesse toccare i 100 miliardi di dollari: per German Gef, numero uno dell’istituto, «la situazione attuale ha un impatto negativo per l’economia di tutto il mondo, in Russia ma anche in Europa».

Detto fatto, Fitch ha abbassato il rating sia di Sberbank che di altre quattro banche a controllo statale, motivando la decisione con «l’aumentata possibilità di deterioramento della capacità del governo di offrire supporto al settore». Sono poi finite nel mirino dell’agenzia anche dieci sussidiarie russe di banche straniere, terminate in categoria “negative watch” a causa del rischio Paese e per le preoccupazioni legate alla convertibilità del rublo: tra queste Hsbc, China Construction Bank Russia, Citibank e Credit Agricole.

Il problema è che il governo russo si trova con le spalle al muro per questa situazione: la Banca centrale ha già alzato i tassi di interesse di 150 punti base per evitare il collasso del rublo, ma questo, di converso, ha paralizzato l’economia del Paese. Per Pawlowsky, «se i tassi resteranno così alti per altri due o tre mesi, ci saranno problemi seri. Non ci sono pranzi gratis per nessuno in situazioni simili, le conseguenze sono dirette: puoi difendere la tua moneta ma per farlo smonti la tua economia interna».

E la Banca centrale può sì schierare a difesa del rublo i suoi 494 miliardi di dollari di riserve, ma questi non possono fare pressoché nulla per rendere meno pesante una conseguente recessione: come nel 2009, quando per tamponare il crollo della moneta furono bruciati quasi 200 miliardi di dollari di riserve, comportando il conseguente crollo dell’offerta di valuta. Ma con le banche e le aziende russe sedute su oltre 650 miliardi di dollari di debito denominato in valute estere, 155 dei quali dovranno fare roll-over entro fine anno, lasciare svalutarsi troppo il rublo è un azzardo decisamente alto: da inizio anno la moneta russa ha già perso l’11% di valore e con un trend simile ripagare un debito in dollari diviene davvero difficile per i soggetti economici russi, viste anche le condizioni non certo favorevoli sul mercato del credito.

Sembravano soft, invece le sanzioni stanno già funzionando: non tanto come effetto diretto, ma come creazione di panico preventivo sui mercati. I quali stanno già prezzando il peggio, il cosiddetto “worst case scenario”. Esattamente ciò che vuole la Casa Bianca.

 

P.S.: Cambiando argomento, c’è da registrare la svolta del presidente della Bundesbank. Jens Weidmann ha infatti detto di non escludere la possibilità che la Bce possa acquistare prestiti e altri asset dalle banche per combattere la deflazione, adottando così il modello della Federal Reserve e ha quindi aggiunto che i tassi negativi sui depositi possono essere una misura da prendere in considerazione per contrastare l’eccessivo apprezzamento dell’euro. «Le misure non convenzionali – ha detto Weidmann – prese in considerazione sono un territorio poco conosciuto. Questo significa che occorre discutere la loro efficacia e gli effetti dei loro costo. Questo non significa che i programmi di quantitative easing siano in generale fuori discussione».

Sindrome da vittoria del Front National alle elezioni municipali francesi? O forse consapevolezza che la tregua dello spread sta finendo, anche grazie alla mossa della Fed sui tassi, che la Cina sta svalutando come non ci fosse un domani, che la situazione dell’Ucraina può andare fuori controllo da un momento all’altro e che le banche europee – in vista degli stress test – non scoppiano affatto di salute come dicono? 

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