L’occasione, per Ignazio Visco, era quasi imperdibile: un convegno in ricordo di Guido Carli. Ministro poco più anziano di Matteo Renzi nell’Italia della ricostruzione, alla guida della diplomazia economica. Governatore della Banca d’Italia a 46 anni all’apice del boom, durante la prima programmazione economica, l’autunno caldo, lo choc petrolifero. Presidente di Confindustria al giro di boa degli anni 80, gli anni tormentati dell’iperinflazione, della scala mobile, delle Br. Superministro economico di Bettino Craxi e Giulio Andreotti e padre dell’ultima riforma bancaria italiana. Nel frattempo, giornalista d’eccezione – sotto lo pseudonimo Bancor – sul primo Espresso. Un personaggio forse unico nella prima Repubblica, Carli: insieme all’amico Enrico Cuccia e ad Enrico Mattei. Se questo economista di pasta molto nordista non avesse attraversato mezzo secolo di vita italiana, la storia politico-economica del Paese avrebbe potuto essere diversa. In ogni caso: Carlo Azeglio Ciampi non sarebbe mai approdato a Palazzo Chigi e poi al Quirinale e Mario Draghi non sarebbe mai diventato presidente della Bce senza l’archetipo-Carli alle spalle.  

Non stupisce che il Governatore in carica – faticosamente entrato nel terzo anno di un mandato ancora privo di un’identità forte – si sia quasi aggrappato alla memoria di Carli. Anzi: l’abbia usata come molla per posizionare sé e Via Nazionale nell’Italia “renziana”: con una determinazione forse inattesa, ma non sorprendente per un banchiere centrale che si è perfezionato alla Wharton School e che ha parlato alla Luiss quando il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, era ancora all’ambasciata Usa di Roma. Anche Guido Carli si trovò a difendere l’Italia – nazione vinta dopo la seconda guerra mondiale – in un’Europa divisa dalla cortina di ferro, collocata nell’alleanza atlantica anche se sollecitata a ricomporsi in nuove strutture politico-economiche. 

L’Italia odierna – quella affidata alle rispettive responsabilità di Renzi e di Visco – è poi così diversa? È uno dei paesi più colpiti dalla crisi finanziaria e dalla recessione economica. È il membro fondatore più acciaccato di un’Europa fratturata al suo interno e – venticinque anni dopo la caduta del Muro di Berlino – messa sotto nuova pressione da Est: dal vicino oriente europeo (la Russia) e dal lontano oriente asiatico (Cina). 

È un paese ad un tempo uguale e diverso da quello cui vent’anni fa un altro Governatore – Ciampi –  somministrò la ricetta della concertazione fra le parti sociali, assieme a quella della privatizzazione e liberalizzazione dell’economia in vista dell’integrazione monetaria europea e della competizione industriale globale. È “uguale” l’Azienda-Paese cui Visco – citando i celebri “lacci e lacciuoli” lamentati di Carli – rimprovera di essere vittima non solo della “burocrazia” (forse anche quella europea…), ma anche e soprattutto delle “corporazioni”: le organizzazioni degli imprenditori e i sindacati. 

L’Italia del 2014 è invece “diversa” da quella cui un premier tecnico come Ciampi poteva permettersi di sviluppare al massimo il ruolo tradizionale di “pedagogo politico-economico” svolto come Governatore della Banca d’Italia: poteva imporre il principio secondo cui ciò che è stato deciso al tavolo triangolare Governo-parti sociali ha forza di legge tra quelle parti, rovesciando il paradigma di mercato per cui gli accordi fra le parti sociali hanno forza di legge. In mezzo c’è un ventennio in cui l’Italia è certamente approdata all’euro, ma nella quale Silvio Berlusconi non è riuscito ad affermare una “rivoluzione liberale” che era certamente nelle corde di un Carli ma che il pragmatismo forse obbligato di un Ciampi (di un Prodi, di un Draghi) hanno oggettivamente impedito negli anni 90. Tanto che all’ingresso “ragionieristico” nell’euro (al prezzo simbolicamente alto della svendita distruttiva di Telecom) non ha corrisposto l’europeizzazione dell’Italia o meglio: di “tutta l’Italia”.

Non è neppure paradossale che sul tavolo degli imputati − in parte ingiustamente − si ritrovi Giorgio Squinzi: un imprenditore-leader di quel “quarto capitalismo” che ha trainato l’Italia a velocità molto maggiore del tran-tran imposto dalla concertazione. Squinzi paga probabilmente più del dovuto un avvio faticoso dei rapporti con Renzi: la cui decisione di privilegiare il taglio dell’Irpef rispetto all’Irap, d’altronde, non aveva contenuti punitivi verso gli imprenditori e più di una ragionevolezza economica elementare. Certo, la Confindustria di Squinzi non è solo quella della sua Mapei e forse non lo è in misura maggioritaria. La Confindustria odierna − quella contro cui si scaglia Renzi e di cui si mostra scontento Visco − è quella delle Fs: e non certo per lo stipendio dell’amministratore delegato Mauro Moretti, piuttosto per il fatto che il capo-azienda è l’ex sindacalista capo dei ferrovieri della Cgil. E il problema di Renzi non è la redistribuzione del reddito dei ferrovieri, ma la loro produttività quotidiana al servizio dei milioni di pendolari. 

Con questa Italia, Renzi ha sempre detto di non voler “concertare” nulla. Il governatore della Banca d’Italia che gli dà ragione non è un fatto da poco: così come i pannelli dei tg sui cali imposti delle tariffe energetiche (a proposito: Eni, Enel e Terna sono “Confindustria” e “sindacato”, non diversamente da come Poste è sinonimo di “Cisl”). Carli era governatore potente e ascoltato all’epoca della nazionalizzazione monopolistica dell’energia elettrica: anche allora Confindustria e Pci − per opposti motivi − erano all’opposizione.