Sentite questa: il reddito medio in Italia ha subito una diminuzione di circa 2.400 euro rispetto al 2007. Lo riferisce l’Ocse. Si tratta, precisa l’analisi, di una delle riduzioni in termini reali più significative nell’eurozona, dove in media, la diminuzione è pari a 1.100 euro. Adesso sentite quest’altra, la dice Bortolussi: dall’inizio della crisi alla fine del 2013 i consumi delle famiglie italiane, al netto dell’inflazione, sono crollati del 7,6%. Ciò vuol dire che la spesa, in valore assoluto, è diminuita di 66,5 miliardi di euro. Esattamente tra queste due notizie sta ficcata la crisi.
Per tutta risposta, in questi tempi grami di denari ma pure di idee, si dibatte a spron battuto di euro sì, lira no; lira sì, euro no.
Orbene, il problema sta nell’uscire dall’euro o nell’entrare in un’altra Europa? L’Europa di un’economia finalmente liberata dei trucchi reflattivi, che si faccia nuova di zecca. Già, quell’Economia dei consumi che gli accademici non scorgono, le facoltà non insegnano e i politici misconoscono. Là dove produzione e consumo giocano alla pari dentro un sistema circolare e continuo; dove i primi danno l’input al moto e i secondi, con l’output, quel moto lo rendono perpetuo, per fare quella crescita che fa la ricchezza.
Ecco, appunto, la “Libero Mercato Spa”, dove agiscono quegli operatori di mercato: milioni di imprese producono valore, centinaia di milioni di consumatori producono il consumo di quel valore. Pure dentro gli Stati e tra gli Stati ci sono aree dove si produce più di quanto si consuma e altre dove accade l’inverso. Le prime hanno bisogno di acquirenti, le seconde di venditori.
Gli squilibri nelle bilance commerciali di quei paesi lo mostrano, esponendo costi e ricavi.
Lo mostra quella parte di debito fatta per dare sostegno al tenore di vita necessario a smaltire le merci prodotte altrove. Questo accade perché, pur spendendo tutti un’unica moneta, per generare ricchezza, questa viene mal allocata per remunerare adeguatamente i titolari di quelle risorse produttive che fanno la crescita: quelli che con la spesa fanno il 60% di quella ricchezza.
Se la crisi risulta aver origine dal reddito erogato dalle imprese a chi lavora, insufficiente ad acquistare quanto prodotto; se questa insufficienza ha impallato il meccanismo dello scambio, dando la stura alla recessione dei paesi del sud e alla stagnazione di quelli del nord; se sprazzi di deflazione gridano e mettono in allarme pure Jens Weidmann, il falco della Bundesbank; se, se, se: insomma non c’è più trippa per gatti, per nessuno.
Quanto di tutto questo possa essere ritenuto responsabile l’euro, lo si può intuire. Come invece la lira possa risolvere tal garbuglio non è dato pensare. Bando alle ciance, andiamo al sodo: quando in quel mercato unico l’offerta si mostra in eccesso, svalutandone il valore per difetto di domanda, si impone la necessità di riportare in equilibrio quel commercio squilibrato, acquistando l’unica merce scarsa sul banco della spesa: la domanda.
Tocca a chi vende importare quella merce che fa smerciare il già prodotto, fa riprodurre dando continuità al ciclo, fa crescere l’economia per fare utili. Viene pure riequilibrato lo squilibrio tra le bilance commerciali dei paesi associati. Uno spazio unico, senza dazi né gabelle si mostra conveniente, con un’unica moneta ancor di più.
Senza farla troppo lunga, tant’è: la crescita si fa con la spesa. Così viene generato reddito, quel reddito che serve a fare nuova spesa. Tocca allocare quelle risorse di reddito per ricapitalizzare chi, nella “Libero Mercato Spa”, con la spesa, remunera.