L’Ucraina fa paura. Borse asiatiche in netto rosso e balzo della volatilità ieri mattina nella prima seduta di contrattazioni della settimana, con l’invasione della Russia in Crimea e i dati sulla produzione cinese, caduta ai minimi negli ultimi otto mesi, che hanno spinto l’indice Nikkei giù dell’1,27% a 14.652,23 punti. Il China’s Purchasing Managers’ Index, pubblicato dall’Ufficio nazionale di statistica, è sceso a 50,2, il livello più basso dal giugno 2013, mentre nel frattempo si registrava un’altra impennata dell’oro, cresciuto dell’1,4% all’oncia. Un trend che, come vi ho già detto, va consolidandosi. L’Hsi Volatility Index, che misura il costo delle opzioni sull’indice Hang Seng di Hong Kong, è salito del 5,9%, toccando i massimi dell’ultimo mese ma per contro il Nikkei Stock Average Volatility Index è balzato del 10%, ai massimi dal 30 gennaio scorso. Insomma, c’è tensione sui portafogli, la gente avrebbe bisogno di un rabdomante finanziario.



Di più, Bhp Billiton, il maggiore gruppo estrattivo mondiale, ha perso l’1,1% a Sydney a causa dello scivolone delle materie prime. Mazda Motor, il produttore di auto giapponese che ricava il 73% del fatturato all’estero, ha perso il 4,1% in concomitanza ai massimi dello yen sul dollaro dell’ultimo mese: compimenti all’Abenomics, sta funzionando davvero benissimo. Insomma, dati macro drammatizzati dai venti di guerra che spirano a Est.



«I mercati sono seriamente preoccupati per un’escalation in Ucraina – ha commentato da Sydney Ric Spooner, capo analista a Cmc Markets -. È vero che molti considerano improbabile che l’Occidente sia fagocitato nel conflitto se non per vie diplomatiche, ma è altrettanto usuale in queste circostanze avviare posizioni di copertura e abbassamento del rischio nei portafogli». E in effetti, ieri Mosca ha pagato pegno al suo interventismo. In apertura di contrattazioni, il rublo ha perso il 2,5% toccando un nuovo minimo storico a 36,5 rubli per un dollaro, mentre l’indice Micex della borsa di Mosca ha perso l’11%, trascinato al ribasso dalle banche (Sberbank -17%, VTB -20%, Bank of St. Petersburg -16%, Bank Vozrozhdenie -10% e Nomos Bank -12%). Record negativo anche per l’euro: il rublo viene trattato a 50 contro la moneta unica. Per questo la banca centrale di Mosca è stata costretta ad alzare, pochi minuti dopo l’avvio delle contrattazioni, il tasso di interesse dal 5,5% al 7%, un aumento di 150 punti base, il più alto dal default del 1998.



Bene, fin qui l’ufficialità. Ma ci stanno davvero dicendo le cose come stanno? Vi rispondo a questa domanda con un’altra domanda: avete visto il film “Wag the dog”, in Italia arrivato anni fa nelle sale e in tv con il titolo “Sesso e potere”? Se no, procuratevelo, è una visione illuminante. Ci spiega come un team della Casa Bianca e un regista genio degli effetti speciali salvano la campagna presidenziale da uno scandalo sessuale distogliendo l’attenzione dell’opinione pubblica inventandosi di sana pianta una guerra – tutta creata negli studi cinematografici – contro l’Albania, ritenuta rifugio di un gruppo terrorista pronto a colpire gli Usa con una bomba sporca.

Proprio sicuri che Putin abbia perso? E che, soprattutto, volesse davvero la guerra e non fosse una manovra studiata a tavolino? Primo, la Russia ha conquistato la Crimea senza sparare un singolo proiettile. Di più, senza che nemmeno i militari avessero il colpo in canna. Il tutto, in due giorni. Secondo, mentre muoveva le truppe, Putin ha speso un’ora e mezzo del suo tempo al telefono con Obama e altrettanto con la Merkel, accettando la mediazione tedesca per la creazione di un gruppo di contatto gestito dall’Ocse: non mi pare l’attitudine di uno che vuole davvero la guerra, altrimenti Mosca avrebbe tramutato l’Ucraina in un posacenere nell’arco di una settimana. Terzo, Putin ha ottenuto il massimo spendendo il minimo: ha di fatto tramutato la Crimea in territorio russo, con buona pace di Kruscev, evitando anche di sborsare i 15 miliardi di dollari di aiuti pattuiti due mesi fa con Yanukovich: l’Europa e gli Usa hanno già detto che aiuteranno Kiev, attraverso anche il Fmi, quindi il default che avrebbe fatto sanguinare Mosca è scongiurato e con soldi occidentali. Quarto, attraverso la sua minaccia, Putin ha sventato il grande corner che si stava organizzando sul prezzo del petrolio, facendo salire le quotazioni sia del Brent che del Wti sul timore di un conflitto. E chi paga quella bolletta petrolifera in aumento? L’Occidente, ovvero noi.

Il rublo, però, è crollato nel mercato dei cambi. Giusto, ecco il quinto punto a favore di Putin. Il quale sta ricevendo più dollari dall’export di materie prime e sta pagando i suoi soldati e tutti i dipendenti pubblici in rubli svalutati, quindi la Russia sta estraendo sempre più rubli dai dollari e dagli euro che ottiene per il petrolio e il gas. Insomma, alla faccia nostra, grazie al tonfo del rublo, Putin ha appena dato vita a una svalutazione competitiva senza fare praticamente nulla, abbassando il costo di stipendi e pensioni e pagando unicamente lo scotto all’eventuale vampata inflazionistica che verrà (e, infatti, hanno subito alzato i tassi), ma incrementando l’inflow in dollari ed euro, quindi massimizzando non solo le entrate che gli faranno mettere a posto i conti, ma anche le riserve in valuta estera, al netto di quelle auree in costante aumento dal almeno quattro anni.

Direte voi, per essere un’operazione preparata a tavolino, però occorre che entrambe le parti siano d’accordo: perché mai l’Occidente dovrebbe guadagnare qualcosa dalla falsa destabilizzazione a Est? È presto detto: ci guadagna in altro modo e si svia l’attenzione dell’opinione pubblica dal vero problema, dal vero catalizzatore che sta spaventando i mercati. Partiamo dal primo punto. Cosa ha dichiarato ieri il premier ucraino in pectore, Arseniy Yatsenyuk, parlando con la stampa internazionale? Quanto segue. «L’Ucraina sosterrà tutte le richieste del Fondo monetario internazionale, siamo certi che le truppe russe non ci invaderanno, incrementeremo le riserve monetarie per contrastare le fluttuazioni, privatizzeremo la Naftogaz e non abbiamo intenzione di nazionalizzare le aziende private». Pescecani stranieri e oligarchi domestici non possono che essere deliziati da dichiarazioni simili, che valgono bene una figuraccia rispetto alla prova muscolare del Cremlino.

Veniamo poi al secondo punto. Il conclamato rallentamento dell’economia cinese e la mancata ripresa Usa stanno concretizzando il rischio di una feroce correzione dei corsi a livello globale, con la crisi dei mercati emergenti che sta per tramutarsi in crisi bancaria (guarda caso, le principali banche russe hanno abbassato sia in Russia che in Ucraina al corrispettivo di 100 dollari il massimo di prelevamento quotidiano possibile ai bancomat per evitare bank run). Signori miei, il margin debt, ovvero il denaro preso a prestito per acquistare azioni a Wall Street, ha segnato un altro record lo scorso gennaio, secondo dati forniti dalla Borsa di New York, un dato che va a sovrapporsi a quello del nuovo record dell’indice Standard & Poor’s a 1.859 punti, toccato venerdì scorso. Oggi il valore del margin debt al Nyse è pari a 451 miliardi di dollari, in crescita del 20% rispetto a un anno prima e al di sopra dei valori massimi del 2007 (381 miliardi di dollari): cinque anni fa toccò, al ribasso, i 173 miliardi di dollari.

Allarmismo? Non per ora, nonostante l’indice S&P sia salito del 22% da inizio anno: «Il mercato può regalare ancora buoni guadagni – ha commentato Kate Warne, investment strategist per Edward Jones, al Financial Times -. Non è ancora arrivato il momento di spostarci ai margini. Si ottengono di solito buoni ritorni negli step finali di una fase toro». Step finali, avete letto bene. E se arriva una correzione, cosa implicita nei numeri, l’Italia ha poco di che stare allegra, visti i dati emersi ieri. Nel 2013, il nostro Pil ha infatti registrato un calo dell’1,9% rispetto al 2012, portandosi a un livello leggermente al di sotto di quello registrato nel 2000. Lo ha comunicato l’Istat, sottolineando che i dati finora disponibili per i maggiori paesi sviluppati mostrano un aumento del Pil in volume negli Stati Uniti e nel Regno Unito (1,9% per entrambi), in Giappone (1,6%) e in Germania (0,4%). Il debito pubblico, poi, è salito al livello record del 132,6% del Pil nel 2013 dal 127% del 2012, mentre l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche, misurato in rapporto al Pil, è risultato pari al 3%, stabile rispetto all’anno precedente. Sempre lo scorso anno la pressione fiscale complessiva (l’ammontare delle imposte dirette, indirette, in conto capitale e dei contributi sociali in rapporto al Pil) in Italia è risultata pari al 43,8%, in diminuzione di 0,2 punti percentuali rispetto al 2012: diciamo che non c’è proprio di che stappare lo champagne.

Anche perché le entrate totali delle amministrazioni pubbliche, pari al 48,2% del Pil, sono diminuite nel 2013 dello 0,3% sull’anno precedente (+2,5% nel 2012). Nel dettaglio, le entrate correnti hanno registrato un contrazione dello 0,7%, attestandosi al 47,6% del Pil. In particolare, le imposte indirette sono diminuite del 3,6%, riflettendo prevalentemente il calo del gettito Imu, dell’Iva e delle accise. Le imposte dirette sono risultate in crescita dello 0,6%, essenzialmente per effetto dell’aumento dell’Ires e dell’imposta sostitutiva su ritenute, interessi e altri redditi da capitale. Infine, la spesa per consumi finali delle famiglie residenti ha segnato nel 2013 una contrazione in volume pari al 2,6% che si aggiunge a quella ancora più accentuata registrata nel 2012, pari al 4%. Il calo dei consumi è stato particolarmente marcato per i beni (-4%), mentre la spesa per i servizi è diminuita dell’1,2%. In termini di funzioni di consumo, le contrazioni più accentuate hanno riguardato la spesa per sanità (-5,7%) e quella per vestiario e calzature (-5,2%), mentre si è contratta del 3,1% la spesa per gli alimentari.

Insomma, un disastro dal punto di vista macro. Ma si sa, certe notizie è meglio non farle circolare troppo. Quindi, via libera a paginate sulla Merkel che chiama Obama e si offre di dar vita a un “gruppo di contatto” ma silenzio su un’altra, contemporanea iniziativa tedesca che potrebbe riverberarsi e pesantemente sul nostro destino a breve termine. Mantenendo – anzi, accentuando – la sua linea di rigidità e temendo che l’Italia possa chiedere qualche concessione sui suoi conti, Berlino ha attaccato in via preventiva la Commissione europea per aver fatto ultimamente troppe aperture non dovute ai paesi non virtuosi. In un documento scritto con la Finlandia, partner di ferro della cancelliera Angela Merkel nella battaglia per il rigore, la Germania ha infatti accusato la Commissione di aver cambiato il modo con cui valuta se gli Stati membri hanno intrapreso “azioni efficaci” per rispettare le regole europee di bilancio. Secondo le due capitali, cambiare il metodo di valutazione comporta il rischio di indebolire le regole approvate in questi ultimi anni per rafforzare la sorveglianza, proprio in uno stadio iniziale della loro applicazione.

Dura la replica della Commissione: «Il metodo per valutare le azioni che portano a una procedura per deficit eccessivo è in uso da oltre un anno ed è stato introdotto con una discussione approfondita con gli Stati membri», ha spiegato Simon O’Connor, portavoce del commissario agli affari economici, il mio amico Olli Rehn. Insomma, la Germania sapeva e non ha detto nulla in fase di ridiscussione. Ma l’attacco tedesco alla metodologia di calcolo è solo un pretesto per riportare l’attenzione sulle concessioni che Bruxelles di recente ha fatto a paesi come Francia, Spagna e Olanda, mal digerite da Berlino che ora teme un’apertura anche ad altri, magari proprio all’Italia, il cui nuovo governo non ha mai fatto mistero di voler ridiscutere i vincoli europei (e guarda caso Matteo Renzi il 17 marzo sarà proprio a Berlino dalla Merkel con la lista dei spesa dei compitini fatti e quelli da fare).

La tempistica del documento tedesco-finlandese parla chiaro: è stato distribuito alle altre capitali europee proprio il giorno dopo le previsioni economiche della Commissione Ue che certificavano un aumento dei deficit di Spagna e Francia, cioè proprio coloro a cui era stato concesso più tempo per rientrare. Nel 2014 la Francia passa dal 3,8% al 4% (con la disoccupazione al record assoluto da quando viene monitorata), mentre la Spagna dei miracoli, quella uscita dalla recessione, peggiora molto il dato del 2013 che dal 6,8% passa al 7,2%. Per Berlino, la dimostrazione che concedere più tempo per risanare i bilanci non serve ma, anzi, spinge solo i paesi a rilassarsi e a rallentare il ritmo delle riforme.

Chi pagherà il conto a questo nuovo scontro tra Germania e Ue sul dogma del rigore? Esatto, l’Italia. Ma tanto i giornali sono tutti concentrati sulla Crimea e sui danni che questa guerra-non guerra porterà a Putin e all’economia russa.. Eh già, proprio così, proprio una disdetta per il buon Vladimir. Datemi retta, guardatevi “Wag the dog”.