In questi giorni emerge un quadro per cui i “rivoluzionari” ucraini sono stati utilmente utilizzati in una partita molto più grande, con la quale l’europeismo ha poco o nulla a che fare. I flussi finanziari valgono più degli ideali europeisti degli ucraini e sono la vera arma letale per vincere la guerra “a scacchi” tra Usa e Russia. Le banche europee più esposte agli effetti della crisi sono austriache (Raiffeisen) e francesi (Societé Génerale) ma anche americane (Morgan Stanley). A nessuno conviene per ora che la crisi diventi una guerra vera. Oggi il barile è quotato saldamente sopra i 103 dollari, il cambio euro/dollaro è stabile intorno a 1,37 e le borse europee rimbalzano. Il rublo russo e la borsa di Mosca si sono deprezzati, ma non preoccupano il governo che invece vede dietro la polvere della “non guerra” opportunità e lucrosi affari: aumenta l’export e si alza il prezzo del gas. Si ha l’impressione che più che la Russia sia la Germania il vero obiettivo americano. Per capire perché, analizziamo la crisi ucraina con le lenti geopolitiche e geofinanziarie.
Intervenendo il 3 marzo in audizione al Parlamento europeo il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha spiegato di guardare alla crisi da due punti di vista. Da un punto di vista strettamente economico il rischio di un impatto sull’Eurozona sarebbe modesto, ma secondo l’ex governatore di Bankitalia le possibili conseguenze geopolitiche su scala più vasta potrebbero avere ricadute anche nell’economia europea. “L’Ucraina conta per meno dell’1% dei flussi commerciali dell’Eurozona e meno dell’1% delle transazioni bancarie riguardano soggetti con sede in Ucraina, quindi l’impatto economico per l’Eurozona dovrebbe essere relativamente limitato”, ha spiegato Draghi, “le implicazioni geopolitiche sono però da sole la capaci di generare eventi che vanno oltre questi meri numeri statistici, dovremmo seguire la situazione con grande attenzione”.
Parole sagge che non seguono la linea dell’attacco isterico russofobo che gli Usa e alcuni membri della Nato stanno propagando da settimane sui media occidentali. Considerando che Draghi è un importante banchiere centrale con un lungo trascorso anche alla Goldman Sachs, si ha l’impressione che negli Usa e in alcuni paesi europei vi sia uno scollamento tra le valutazioni dell’alta finanza e le policy governative. Mentre le prime si sviluppano in base ai principi realistici della interconnessione mondiale, le seconde sono ancorate a una visione ideologica e geocentrica del mondo.
Infatti, il New York Times ha svelato che “la pressione domestica su Obama per fare qualcosa” è all’origine della manipolazione mediatica russofoba per la quale la cancelliera Merkel avrebbe detto che Putin avrebbe “perso il contatto con la realtà”, mentre in realtà la frase era “vive in un altro mondo”. La strategia americana, a ben vedere, sembra quella di discreditare la Merkel più che Putin, in modo da rendere difficile alla Germania di trovare un canale politico e diplomatico per una soluzione (il proposto “gruppo di contatto”) con la Russia al di fuori del quadro previsto dagli Usa. Questa interpretazione dei fatti sembra essere confortata dalle parole attribuite a Obama nel corso dei suoi colloqui telefonici con omologhi del G8: “make sure everybody’s in lock step with what we’re doing and saying” (traduzione: fate in modo che ognuno sia allineato con quello che diciamo e facciamo).
D’altra parte, la questione del deprezzamento della valuta russa e delle valorizzazioni borsistiche è stata volutamente amplificata per cercare di mettere in difficoltà Mosca, deteriorandone l’immagine internazionale. Tuttavia, sulla linea dell’isteria russofoba, si dimentica che il governo russo non è affatto preoccupato per la svalutazione del rublo, che invece è stata in buona parte voluta dalla stessa Russia, e che la volatilità serve principalmente a permettere lauti guadagni agli speculatori russi e ucraini, ad esempio agli oligarchi che incautamente proprio il nuovo “governo rivoluzionario” ucraino ha nominato a capo delle regioni: l’ufficio del “presidente” ucraino Oleksandr V. Turchynov ha annunciato la nomina di due miliardari, Sergei Taruta nella regione Donetsk e Ihor Kolomoysky in quella di Dnipropetrovsk, mentre altri quattro sono in considerazione per le regioni orientali. Il ministro russo dell’economia, Alexei Ulyukayev, ha dichiarato che la politica di svalutazione non può che giovare all’export russo. Anche il presidente Putin, nonostante la propaganda occidentale, non sembra affatto preoccupato dalla situazione economica, che migliorerà non appena i profitti delle grandi imprese russe torneranno a crescere anche grazie agli elevati prezzi del petrolio.
Sul piano politico e geopolitico, il premier russo Medvedev ha annunciato che il presidente ucraino è legalmente Viktor Yanukovic che può essere destituito solo attraverso la procedura di impeachment prevista dall’art. 111 della costituzione ucraina. Tutto ciò che sta avvenendo in Ucraina, ha aggiunto, è frutto dell’illegalità e dell’arbitrarietà di un gruppo di persone che hanno preso il potere con un colpo di stato. Quindi, ha concluso, “è evidente che la situazione di instabilità e di violenza continuerà fino a quando con un nuovo colpo di stato non si ristabilisce l’ordine costituzionale”. Questa drammatica visione potrebbe diventare realtà perché il “nuovo governo” ha dissolto la polizia antisommossa, la Bekrut, che era l’unica forza pubblica capace di opporsi alle violenze delle bande neonaziste e criminali che ora si muovono liberamente sul territorio. Chiaramente, se queste bande dovessero attaccare la popolazione russa e russofona nell’est dell’Ucraina, sarebbe la scintilla per far scoppiare una guerra di più ampie proporzioni.
Da un punto di vista logistico e militare non v’è dubbio che la Russia vincerebbe qualsiasi guerra contro uno sgangherato e sleale esercito ucraino. Tuttavia, appare chiaro a Mosca che il costo di una tale operazione sarebbe molto elevato. Quindi, la soluzione più semplice e ragionevole sarebbe di tenere la Crimea protetta e fuori dal teatro di scontri ucraino mentre si negozia una soluzione “finlandese” per le regioni occidentali e orientali dell’Ucraina.
L’Ucraina divisa in due parti, in due regioni autonome, resterebbe nell’insieme a carico dell’Occidente. Questa proposta era stata avanzata da Zbigniew Brzezinski sul Financial Times del 24 febbraio. Questo è anche il senso del “gruppo di contatto” proposto dalla Germania, che dovrebbe riunirsi la prima volta domenica 9 marzo. Però, come abbiamo visto, resta l’incognita della posizione americana e di alcuni alleati europei, particolarmente il Regno Unito, la Francia e la Polonia. La Cina sostiene la Russia ma non vuole che prevalgano soluzioni “separatiste” o “indipendentiste” rompendo l’unitarietà dell’Ucraina.
Appare ormai piuttosto evidente che la politica adottata dall’Ue, in particolare dalla baronessa Catherine Ashton, è stata drammaticamente sbagliata e più che amatoriale essa sembra essere stata condotta in malafede fin dalla sua apparizione al fianco dei manifestanti il 21 novembre 2013. Incomprensibile è la posizione dell’Ue che dopo la mediazione dei ministri degli esteri tedesco, polacco e inglese con il presidente Yanukovich portò alla firma del decreto per le elezioni anticipate (21 febbraio 2014), nulla ha eccepito quando poche ore dopo i “manifestanti” hanno preso il potere costringendo il presidente eletto alla fuga. Estremamente preoccupante è il silenzio dell’Ue rispetto alla decisione adottata dal parlamento ucraino che ha abolito il bilinguismo russo-ucraino (27 febbraio 2014). Da ultimo, dopo aver minacciato le sanzioni contro la Russia accusata di “invasione”, l’Ue non ha ancora trovato un accordo operativo, perché Londra ospita numerosi oligarchi russi e ucraini che hanno investito nella City le loro enormi ricchezze, e la Germania teme che l’escalation del confronto con la Russia porti alla chiusura delle forniture di gas da parte di Gazprom. Insomma, una serie di sconfitte politiche e di errori di valutazione che fanno dubitare dell’utilità stessa dell’Ue.
La veemenza delle parole pronunciate dal segretario di stato americano, John Kerry, “isolare economicamente la Russia”, sembra avere un solo effetto: indebolire le capacità negoziali tedesche e italiane, mettendo in scacco l’Ue come già avvenne nel 1992 con la guerra in Jugoslavia. Sono passati 22 anni, e ancora una volta un’Amministrazione democratica americana ripete lo stesso schema di azione per impedire all’Europa di risolvere i suoi problemi di integrazione e unificazione. Non è un caso che Victoria Nuland, la vice di Kerry che ha pronunciato la frase “che l’Ue si fotta”, sia di origini moldave oltre a essere una protetta di Madelaine Allbright, Segretario di stato democratico ai tempi della Jugoslavia, e a essere sposata con un falco neocon, Robert Kagan. Tutto questo mette una pesante ipoteca sulla politica estera di Obama che pretende di lasciare agli europei “il costo” del salvataggio dell’Ucraina. Oggi gli Usa hanno offerto la magica somma di 1 miliardo per l’Ucraina, che invece ha bisogni immediati di circa 35 miliardi e nel medio termine di oltre 200 miliardi.
Sul piano geofinanziario – forse la vera guerra a cui si riferiscono le parole di Kerry – si ricordano le mosse dei giganti petroliferi Chevron, Exxon e Shell in Ucraina, Polonia e Romania, con la conclusione di grandi contratti per l’estrazione di gas di scisto, tra il 2012 e il 2013. Contratti per decine di miliardi di dollari per rendere sempre meno necessaria “l’amicizia” tra Russia ed Europa in materia energetica. Questa questione è ben nota all’italiana Eni e all’allora governo Berlusconi. È proprio attorno alla delicata questione energetica europea che si sviluppa l’attrito maggiore con la Russia. Mentre Italia e Germania condividono interessi simili, il resto dell’Occidente può permettersi più facilmente una politica anti-russa, sfruttando convenientemente la crisi ucraina. I due paesi già sconfitti nella Seconda guerra mondiale rischiano di essere nuovamente sconfitti nella “più grave crisi del XXI secolo”. Resta da vedere se la vecchia logica americana del “containment” prevarrà oppure se finalmente alcuni paesi europei dichiareranno la propria neutralità e si dichiareranno pacifisti. L’Italia dovrebbe seriamente pensarci.
La partita energetica (la situazione è riassunto nella cartina a fondo pagina) non è solo geopolitica ma soprattutto geofinanziaria. Infatti, gli enormi flussi di denaro che movimenta l’energia, secondo gli Usa, devono essere ri-diretti verso l’Occidente, particolarmente a sostegno del dollaro. Questa strategia rientra nel quadro di consolidamento Usa-Ue che si è sviluppato attraverso le acquisizioni borsistiche Ice-Nyse-Euronext, e di recente con i negoziati, ancora aperti, per la realizzazione della zona di libero scambio transatlantica, denominata Ttip.
La vera posta in gioco è costituita da un lato dalle valorizzazioni industriali, ma anche, in modo molto significativo, dal lucroso mercato dei derivati finanziari in materia energetica. La Deutsche Borse, che è rimasta isolata dalla fusione borsistica transatlantica, che in Europa è guidata da Londra, ha cercato di catturare i flussi dei derivati energetici eurasiatici attraverso l’apertura di uno specifico ufficio operativo a Singapore. Questo consentirebbe di intercettare sia i flussi collegati all’energia russa che quelli dell’Asia minore. Questa scelta strategica della Deutsche Borse relativizzerebbe l’importanza della City di Londra, che attualmente è la principale piazza per il trattamento dei derivati energetici. È evidente che dal punto di vista degli interessi angloamericani non conviene che ciò avvenga.
Infine, la questione ucraina, ovvero dei flussi energetici e finanziari tra Russia e Occidente, si collega anche ai negoziati in corso con l’Iran e la Siria. L’eventuale pacificazione della regione permetterebbe di investire in estrazione petrolifera in Iran e Iraq che offrirebbero quantità e ritorno sugli investimenti talmente favorevoli da relativizzare l’Arabia Saudita. Sul piano geopolitico, inoltre, il ritorno di questi attori nel mercato favorirebbe la creazione di percorsi alternativi alla Russia per il trasporto del gas e del petrolio verso il Mediterraneo. Evidentemente è un’ipotesi allettante per gli Usa e per l’Europa, ma assolutamente pericolosa per la Russia. Quest’ultima ha interesse non solo a mantenere la situazione di quasi monopolio delle forniture di gas all’Europa, ma anche di evitare il tracollo del prezzo del barile che per motivi di sostenibilità interna deve restare sopra gli 80 dollari.