L’Italia non potrà utilizzare i fondi strutturali europei per ridurre il cuneo fiscale. Lo ha sottolineato Joannes Hahn, portavoce del commissario Ue alle politiche regionali, chiarendo così che il modo attraverso cui il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, intende finanziare la riduzione delle imposte sul lavoro non è rispettoso delle direttive europee. Per Guido Gentili, ex direttore ed editorialista de Il Sole 24 Ore, «l’obiettivo dei fondi strutturali è quello di aumentare la competitività delle imprese e il taglio del cuneo fiscale va in questa direzione, come auspicato dalla stessa Commissione Ue».



Ritiene che l’interpretazione della Commissione Ue sia corretta?

L’interpretazione del portavoce fa riferimento alle regole Ue. Se è così il finanziamento non può essere traslato direttamente alla voce del cuneo fiscale. Il taglio di quest’ultimo rappresenta però una delle raccomandazioni che figurava da parte della Commissione Ue nel momento in cui noi siamo usciti dalla procedura d’infrazione per deficit eccessivo. L’impostazione è stata ribadita anche dopo l’approvazione della legge di stabilità da parte del governo Letta.



L’Italia a questo punto deve rinunciare a ridurre il cuneo fiscale?

No, anche perché la riduzione del cuneo fiscale fa parte della ricetta politica della Commissione Ue. Come ha ribadito Zingales, la riduzione del cuneo fiscale avrebbe gli stessi effetti di quella che era la svalutazione ai tempi della lira. In questo modo è possibile riprendere una competitività che abbiamo perduto per strada.

Secondo lei, alla fine si troverà il modo per utilizzare i fondi strutturali per il cuneo fiscale?

Se l’obiettivo dei fondi strutturali è quello di aumentare la competitività delle imprese, bisogna evitare di cadere in nominalismi che si sostanziano alla fine nel fatto di non poter fare nulla. Non credo che il ministro Padoan, che è un grande esperto di queste materie ed è stato il numero due dell’Ocse, sia inciampato in un’interpretazione che non sta manifestamente in piedi. Ci sarebbe quindi spazio per interpretare bene questo richiamo della Commissione Ue.



Nel frattempo i soldi versati dall’Italia per il Fondo Salva Stati vanno ad aumentare il debito pubblico?

Il debito pubblico aumenta, ma ci sono dei debiti tali per cui l’aggravio è ridotto a pochi miliardi, e non comporta un aumento secco di 58 miliardi. Colpisce però il fatto che l’Italia è uno dei Paesi a contribuire di più in Europa, e dovrebbe quantomeno fare sì che le valutazioni della Commissione Ue siano al netto degli esborsi che sono stati fatti per gli aiuti ai Paesi in difficoltà, a partire dalla Grecia. 60 miliardi pesano, anche da un punto di vista solo nominale. Nel Documento di economia e finanza (Def) del ministero del Tesoro troviamo anche le cifre del debito pubblico, ma al netto degli aiuti forniti i quali sono largamente inferiori. Anche su questo terreno dovrebbe esserci uno sforzo più chiaro per fare sì che su questo debito pubblico non gravi anche da un punto di vista nominale il peso del sostegno ai Paesi in difficoltà.

 

Resta il paradosso di un’Ue che ci costringe a indebitarci per aiutare gli altri paesi, e poi ci toglie i mezzi per fare le riforme che ci chiede …

Questi sono i meandri di una governance europea che non da oggi crea problemi a un Paese come l’Italia. L’anno prossimo entreremo nel concreto del meccanismo del Fiscal compact, e quindi della riduzione programmata del debito pubblico per la parte eccedente il 60% del rapporto debito/Pil, che è oggi al 132,7%. Si tratta di cifre importanti, e su quell’ammontare del debito si tiene poco conto dell’esistenza di un avanzo primario che in Italia è molto forte e tra i primi in Europa. Siamo secondi solo alla Germania, che è l’unica ad avere un avanzo primario più alto del nostro.

 

(Pietro Vernizzi)