Ieri il cambio euro/dollaro ha toccato i massimi degli ultimi due anni e mezzo a oltre 1,39 per poi scendere sotto tale soglia dopo la pubblicazione di dati sul mercato del lavoro americano migliori delle attese. L’anno scorso in questo periodo il cambio euro-dollaro viaggiava sul livello di 1,30 e all’inizio di luglio era ben al di sotto di questa soglia. Il recente strappo al rialzo degli ultimi due giorni è arrivato dopo il discorso del presidente della Bce Draghi di giovedì pomeriggio, quando si è capito che, nonostante le condizioni economiche deboli di buona parte d’Europa e un’inflazione inesistente, la Bce non avrebbe adottato politiche monetarie più espansive delle attuali.
I timori sulla tenuta dell’euro sono spariti dai mercati da molti mesi e gli spread tra Bund e debiti sovrani dei Paesi periferici si sono ridotti grandemente. Draghi ha chiamato l’eurozona “un’isola di stabilità”; questa definizione presuppone che al di fuori dell’isola ci sia un contesto di instabilità che gli investitori abbandonano per rifugiarsi nell’euro. Le politiche di austerity, i progetti più o meno esplicitati di patrimoniali (soprattutto per il debito maggiore dell’area euro – quello italiano) hanno confermato l’impressione che non ci saranno sbandamenti di sorta nei deficit dei paesi membri dell’euro. Tutto ciò si confronta con un esperimento senza pari di immissione di liquidità messo in atto dalla Banca centrale del Giappone, da una Fed che ha fatto capire che nessun tapering verrà affrettato mentre il governo americano si lancia in programmi di welfare e spesa mai esplorati. Venti di instabilità soffiano sulle coste del Mediterraneo, di guerra ai confini dell’Europa mentre i paesi emergenti hanno sperimentato svalutazioni sensibili nelle ultime settimane. Perfino la Cina sembra aver agito negli ultimissimi giorni per fermare il trend di rafforzamento dello yen.
Non stupisce quindi che l’euro, sempre più simile in realtà al marco, si rafforzi lentamente ma inesorabilmente. Fare previsioni, in questa fase dei mercati, è un mestiere per cuori forti, tanto più se il numero di variabili da considerare rispetto a qualche anno fa è esploso e ormai comprende elementi di politica estera o geopolitica davvero difficili da considerare.
Le conseguenze del rafforzamento dell’euro sono sempre le stesse: le imprese che esportano hanno difficoltà maggiori, soprattutto se non sono efficienti e se non occupano la fascia alta del mercato. È possibile che molte imprese italiane negli ultimi anni si siano abituate a una valuta molto diversa dalla lira e che in un certo senso ci sia già stata una selezione naturale, ma è chiaro che il nostro sistema industriale non può essere particolarmente contento di dover affrontare concorrenti, americani, giapponesi, ecc. con una valuta così forte.
I vantaggi principali, oltre a quelli per i fortunati viaggiatori che escono dall’area euro, sono sul lato dell’acquisto di materie prime, a partire dal petrolio, e, soprattutto, su quello del costo del finanziamento dato che i debiti emessi in valuta forte risultano più appetibili per gli investitori esteri. È chiaro però che i vantaggi rimangono apprezzabili se il rafforzamento si mantiene entro certi livelli. È impossibilie fissare con precisione un livello oltre il quale i vantaggi si annullano completamente e ci sono solo svantaggi, ma è chiaro che se, per esempio, il cambio superasse di molto 1,50 ci sarebbero dei problemi seri.
Le eventuali leve per cambiare questo andamento non sono nelle mani dell’Italia, ma in quelle europee e della Bce dove, palesemente e da anni, comanda la Germania. La domanda più interessante è quale livello di euro sia considerato accettabile dal sistema industriale tedesco; nel momento in cui la Germania si accorgesse che qualcosa non funziona nel cambio attuale e che il suo sistema industriale comincia a perdere troppi colpi e ad affrontare troppi rischi probabilmente le cose potrebbero cambiare; non è il caso di farsi troppe illusioni, però, perché la Germania è abituata ad avere a che fare con una valuta forte e niente fa pensare che decida di cambiare. In sostanza meglio che ci abituiamo e che cambiamo noi.