La notizia che la Commissione Ue ha chiesto alle autorità italiane “maggiori informazioni sul decreto legge del 30 novembre 2013 che introduce cambiamenti nel capitale e negli azionisti di Bankitalia, per valutare se contiene aiuti di Stato ad alcune banche” non può suscitare alcuna meraviglia: chi scrive aveva più volte segnalato, anche su queste pagine e persino prima che il d.l. 133/2013 venisse approvato, che la privatizzazione dell’Istituto centrale e la contestuale rivalutazione del suo capitale, mediante l’imputazione di una parte delle riserve, oltre a collidere con la Costituzione, si pone in contrasto con il divieto comunitario di aiuti di Stato.



Non è il caso di ripercorrere analiticamente gli argomenti a suo tempo esposti, per i quali si può, dunque, rinviare ai precedenti articoli. Può bastare, in questa sede, rammentare in sintesi tre punti:

1) le banche che, per più di venti anni, hanno illegittimamente detenuto (e iscritto in bilancio, peraltro a un valore commisurato all’intero patrimonio di Palazzo Koch, ivi comprese le riserve auree, delle quali la Banca centrale afferma, senza fondamento, di essere proprietaria) le quote di partecipazione in Banca d’Italia, hanno, ovviamente per lo stesso periodo di tempo, percepito i relativi dividendi, senza che ciò corrispondesse ad alcun loro conferimento;



2) in forza del d.l. n. 133/2013 i partecipanti al capitale hanno ricevuto un duplice beneficio: si sono, infatti, visti attribuire il titolo di legittimazione alla proprietà delle quote, con conseguente stabilizzazione del relativo incremento patrimoniale, non soltanto acquisito, come si è detto, senza alcun corrispondente esborso, ma per di più con contestuale rivalutazione delle quote medesime, mediante trasferimento delle riserve che pure, a ripetuto dire dei vertici di Bankitalia, nonché e soprattutto in ragione della relativa disciplina giuridica, costituiscono risorse rivenienti dall’esercizio di funzioni pubbliche in regime di monopolio;



3) l’imposizione di un limite percentuale (3%) alle quote di capitale legittimamente detenibili da ciascun partecipante, introdotto dal d.l. n. 133/2013 (art. 4) trova una sorta di compensazione (e fors’anche una misura che asseconda i desiderata delle banche) nella previsione secondo la quale (art. 4, co. 6 d.l. cit.) “La Banca d’Italia, al fine di favorire il rispetto dei limiti di partecipazione al proprio capitale fissati al comma 5, può acquistare temporaneamente le proprie quote di partecipazione e stipulare contratti aventi ad oggetto le medesime. Tali operazioni sono autorizzate dal Consiglio Superiore con il parere favorevole del Collegio Sindacale ed effettuate con i soggetti appartenenti alle categorie di cui al comma 4, con modalità tali da assicurare trasparenza, parità di trattamento e salvaguardia del patrimonio della Banca d’Italia, con riferimento al presumibile valore di realizzo. Per il periodo di tempo limitato in cui le quote restano nella disponibilità della Banca d’Italia, il relativo diritto di voto è sospeso e i dividendi sono imputati alle riserve statutarie della Banca d’Italia”: in tal modo, i partecipanti titolari di quote eccedentarie possono fare affidamento su un acquirente certo, espressamente vincolato, peraltro, a corrispondere un prezzo che salvaguardi il patrimonio della banca “con riferimento al presumibile valore di realizzo”.

Tale prescrizione può essere interpretata come costitutiva del dovere, in capo all’Istituto, di effettuare la valutazione delle quote avuto riguardo all’intera consistenza patrimoniale di Palazzo Koch e, quindi, anche alle riserve auree, di cui l’Istituto si è arrogata la proprietà, esattamente come accadrebbe in una libera negoziazione di mercato. L’acquisto in parola dà poi luogo a una spendita di risorse pubbliche, oggettivamente destinate ad apportare un rilevante miglioramento patrimoniale delle banche partecipanti che, a differenza di tutte le altre, possono giovarsene anche ai fini della rispondenza ai parametri del cosiddetto Core Tier 1 stabiliti dal Comitato di Basilea.

Non può quindi nutrirsi alcun serio dubbio circa l’effetto di depauperamento causato allo Stato dal d.l. n. 133/2013. V’è poi un aspetto davvero paradossale. Più volte il Governo e la stessa Banca d’Italia, prima e dopo la conversione del d.l. in questione, a pretesa giustificazione della sussistenza di ragioni d’urgenza per adottare tale provvedimento ex art. 77 Cost., hanno invocato (more italico) sedicenti obblighi di conformazione imposti dall’ordinamento europeo (senza, tuttavia, mai citare un disposto a sostegno dell’affermazione). L’assunto è stato ripetutamente smentito proprio dalle istituzioni comunitarie.

Una prima volta, come si è già avuto occasione di rammentare, la Bce, interpellata dal Governo pochi giorni prima dell’adozione del decreto legge, aveva formulato una serie di rilievi, anche in ordine all’intempestività della richiesta, esprimendo dubbi, tra l’altro, in merito alla legittimità e all’opportunità della previsione dell’acquisto di azioni proprie da parte dell’Istituto centrale.

È poi giunta la lettera di cui si diceva al principio di queste note, grazie alla quale “si scopre” che l’ex Ministro dell’Economia Saccomanni (v. l’articolo di Federico Fubini apparso su la Repubblica del 28 febbraio scorso), nonostante l’avviso manifestato dalla Bce, aveva ritenuto di non notificare alla Commissione il d.l. n. 133/2013, sul presupposto, infirmato dallo stesso costrutto normativo, prima che dalle deduzioni dell’Eurotower, che esso non presentasse alcun profilo da scrutinare sub speciedi concessioni di aiuti pubblici a soggetti privati.

L’omissione del Governo Letta è stata, tuttavia, colmata, secondo quanto riferito dai quotidiani (vedasi il citato articolo di Fubini) da un’interrogazione rivolta alla Commissione dall’eurodeputato dell’Idv, Nicolò Rinaldi: ciò che conferma l’anomalia tutta italiana, per cui – all’opposto di quanto accade, ad esempio, in Germania, ove il Tribunale costituzionale ha ripetutamente arginato atti e comportamenti che rischiassero di ridondare in rinunce o cessioni definitive di sovranità, quand’anche in nome dell’unificazione dell’Europa (si pensi al caso dell’Omt deliberato dalla Bce o a quello della legge elettorale per il Parlamento europeo) – siamo costretti ad andare a cercareextra moenia il rimedio a provvedimenti normativi che pure non dovrebbero resistere alle diverse istanze di scrutinio di legittimità costituzionale previste dal nostro ordinamento.

L’intervento della Commissione europea, tuttavia, oltre a colpire alcuni altri aspetti contrari anche al diritto nazionale – ad esempio, per quanto attiene al trattamento fiscale agevolato delle plusvalenze realizzate dalle banche italiane a seguito della rivalutazione delle quote (profilo che – scrive ancora Fubini – avrebbe particolarmente infastidito le banche estere operanti in Italia) – potrebbe altresì travolgere la clausola di riserva delle partecipazioni al capitale soltanto a soggetti privati italiani, ossia uno dei pochissimi elementi del decreto che, in sede di conversione, il Parlamento aveva opportunamente modificato (la versione originaria apriva infatti il capitale anche a soggetti stranieri, purché aventi sede nell’Unione europea).

Ma dopo la bagarre scatenatasi alla Camera dei Deputati il 29 gennaio scorso, il tema sembra non aver lasciato traccia nel dibattito pubblico: è auspicabile che la missiva giunta da Bruxelles serva a indurre il nuovo Esecutivo e le Camere a rivedere motu proprio tale normativa, scongiurando il rischio che il vaglio comunitario imponga una road map di modifica che determini risultati contraddittori rispetto alle molte e rilevantissime esigenze, di carattere squisitamente nazionale, che imporrebbero il ritorno del capitale di Via Nazionale in mano pubblica.

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