In questo articolo si cerca di spiegare in modo comprensibile perché i politici europei stanno portando, senza capirlo o saperlo, l’idea europea all’autodistruzione. Chissà se i giovani al governo adesso in Italia si rendono conto delle drammatiche scelte di verità che dovranno necessariamente compiere, prima che sia troppo tardi. Che l’eurozona sia stata concepita male lo dicono e scrivono in molti. Ma se a dirlo sono due influenti centri studi in materie economiche e monetarie, allora è meglio crederci. Nello studio n. 4086 del gennaio 2013 il Center for Economic Studies (Ces) e l’Ifo Institute hanno pubblicato una tesi chiarissima secondo la quale le misure di protezione fiscale messe in atto dalla Bce hanno calmato i mercati finanziari, ma hanno lasciato irrisolto il vero problema che impedisce la crescita: la competitività interna tra i paesi dell’eurozona.



La Francia e i paesi dell’Europa del sud non riescono a competere con i loro prodotti rispetto alla Germania e agli altri paesi dell’eurozona. Questo è il risultato della stabilizzazione dei prezzi messa in atto dalla Bce, che in esecuzione precisa del mandato attribuitole dal Trattato di Maastricht è intervenuta per ridurre l’inflazione. L’applicazione di politiche keynesiane sarebbe controproducente per i primi e inutile per i secondi, portando alla stagflazione (arresto dell’economia) nel sud Europa e in Francia e all’inflazione nel nord. Quindi il divario diventerebbe ancor più marcato nell’eurozona, che diventerebbe ingovernabile. La soluzione prospettata nello studio è di una vera e concreta integrazione economica tra nord e sud Europa, che si può realizzare solo attraverso un riallineamento relativo dei prezzi dei prodotti e il riequilibrio dei conti correnti.



Ciò si può realizzare solo se i mercati finanziari fossero autorizzati a ridirigere i flussi di capitale verso il nord Europa invece di essere “guidati” artificialmente per un uso che essi stessi vorrebbero evitare (nel sud Europa). In pratica, chi sta meglio, secondo la regola aurea di qualsiasi tipo di unione economica o monetaria, si avvantaggia rispetto agli altri che diventano zone “colonizzate” o comunque “specializzate” e dipendenti da chi è in vantaggio. Un’unione basata sulla solidarietà e la mutualizzazione, nonostante i preamboli retorici dei trattati, non è stata ancora scritta.



Questo discorso spiega meglio la posizione assunta dalla Germania con la recente sentenza sull’Omt, ma anche la cautela e le condizionalità imposte per l’uso dell’Esm e di qualsiasi altro strumento di salvataggio di stile mutualistico nell’eurozona. Lo stesso ragionamento è anche applicabile alle discussioni in corso relative alla traduzione in realtà dell’Unione bancaria, il cui meccanismo chiave, il sistema di risoluzione, deve ancora essere scritto. Il Parlamento europeo ha tentato di inserirsi, richiamando le proprie prerogative, su questo punto, ma è molto probabile che alla fine cederà lasciando fare ai governi.

L’assenza di competitività dell’eurozona era ben chiara ancor prima che essa entrasse in vigore (1999) e fu discussa al Summit di Madrid del dicembre 1995. Nonostante ciò la Commissione europea decise di adottare il regolamento 1466/97 che impose la nascita dell’eurozona senza prima intervenire sul doloroso ma necessario riallineamento. Una scelta scellerata, che come ha spiegato il Prof. Giuseppe Guarino dovrebbe essere dichiarata giuridicamente nulla, che ha portato alla rapida (e artificiale) convergenza dei tassi di interesse, offrendo credito a buon mercato ai paesi del sud e all’Irlanda. Questi crediti hanno permesso l’iniziale successo dell’eurozona, per cui nei paesi del sud Europa e in Irlanda si è generata una spinta inflazionistica che ha facilitato e permesso la convergenza dei paesi periferici. Una vera e propria “bolla” che è poi esplosa nel 2007 non appena si sono manifestati gli effetti della crisi finanziaria americana.

Quel che sorprende è la (volontaria) approssimazione dei governi membri dell’eurozona, e dell’Ecofin guidato da Claude Junker ora rilanciato come possibile candidato Ppe alla presidenza della Commissione europea, che non hanno preso più in considerazione i fondamentali che potevano portare alla bancarotta di alcuni stati e al ritorno, com’è infatti avvenuto, di quegli spread tra nord e sud Europa. Insomma, i funzionari europei e dei governi, oltre che i vertici politici, sono responsabili del guaio disastroso (e dei danni) messo in atto con la costruzione dell’eurozona in questo modo.

Il credito facile ha fatto crescere significativamente la spesa pubblica. Ma più grave è il differenziale dei prezzi calcolato tra il 1995 (Madrid) e il 2008 (Lehman crash): il differenziale medio europeo era di ben il 26%, ma a livello nazionale troviamo dati da capogiro (Grecia 67%, Spagna 56%, Irlanda 53%, Portogallo 47%). Nello stesso periodo in Germania la crescita dei prezzi era solo del 9%. Il quadro diventa ancor più funesto se si guarda all’apprezzamento e al deprezzamento valutario immediatamente prima del 1999. Alcune valute hanno deprezzato moderatamente, ma altre, invece, si sono apprezzate relativamente al resto dell’eurozona (Grecia 18%; Spagna 22%; Irlanda 30%; e Portogallo 14%). Se per questi ultimi paesi si fa il calcolo combinando l’aggiustamento dei prezzi e quello del tasso di cambio, si ottiene che il loro apprezzamento relativo al resto dell’eurozona è stato del 30%. I paesi della periferia sud e occidentale dell’eurozona hanno perso in competitività semplicemente diventando più costosi. Le ricadute positive eventualmente recuperabili dal traino della zona nord dell’Europa sono state marginali e comunque vanificate dalla coincidenza dell’esplosione della bolla finanziaria del 2008.

Secondo il citato studio, l’Italia fa eccezione a questo schema. Infatti, scrivono gli autori, se nel periodo 1995-2008 l’Italia avesse utilizzato il margine di risparmio, che si era generato tra la significativa riduzione sul servizio del debito pubblico e i ridotti guadagni della tassa sul valore aggiunto, per abbattere il debito pubblico invece di trasferirli nella spesa pubblica, il rapporto debito/Pil sarebbe sceso al 18%. La politica economica, fiscale e monetaria italiana non ha fatto esplodere un boom, anche se ve ne erano tutte le condizioni, come in Germania, ma ha inspiegabilmente visto esplodere i prezzi del 41%. Se a questi dati incrociamo l’assurda rivalutazione della lira decisa dal governo Prodi (con Ciampi e Visco) nel 1996, i prezzi italiani rispetto a quelli tedeschi in marchi sono aumentati del 55%, e rispetto all’eurozona in euro sono aumentati del 27% e su quelli tedeschi in euro del 48%. Questo spiega l’origine della stagflazione dell’economia italiana, aggravatasi con l’imposizione delle misure di austerity dal 2010 a oggi.

Tuttavia, poiché il debito pubblico italiano è detenuto all’estero solo per il 22%, la sua sostenibilità nel 2013, scrive Goldman Sachs, si poteva ottenere con un modesto deprezzamento dei prezzi tra il 5% e il 15%. Diversamente un deprezzamento più importante, 25-35%, è necessario per Spagna, Portogallo e Grecia, ma anche per la Germania e la Francia, 15-25%. Ovviamente, l’oscillazione del necessario deprezzamento dipende anche dal tasso di crescita e dal tasso di sconto. I dati più recenti della Commissione europea indicano una tendenza al ribasso della crescita e il possibile rialzo, ancora non avvenuto, del tasso di sconto. Se la tendenza di questi dati sarà confermata nei prossimi mesi, l’aggiustamento sarà più doloroso per tutti i membri dell’eurozona.

Durante la crisi 2007-2012 poco o nulla si è fatto in termini di riallineamento dei prezzi. Quel poco che si è fatto è stato gravemente sbagliato, con la Francia che ha visto un incremento dei prezzi dello 0,9% e la Germania un decremento del 2,1%. Solo l’Irlanda ha applicato una seria politica di deprezzamento intorno al 15%, che in coppia con i bassi tassi di sconto ha permesso alla sua economia di ripartire. Si devono evitare gli errori già compiuti dalla Germania durante la sua crisi dell’euro nel 2003. A quel tempo, il cancelliere socialdemocratico Schroeder intervenne con una massiccia riforma del mercato del lavoro, delle pensioni e dei servizi sociali che, nonostante il retorico apprezzamento, ha prodotto gravissimi effetti sociali. Infatti, ha distrutto sia il livello medio dei salari, abbassandolo, ma ha annientato i salari più bassi che per la scarsa produttività sono diventati insostenibili. Questo spiega i 12 milioni di mini-jobs che esistono in Germania oggi.

Quindi è evidente che quel che oggi serve ai paesi del sud Europa non è un intervento di riduzione dei salari, ma un deciso intervento sui prezzi. Solo un tale intervento può cambiare strutturalmente la partita corrente, quindi attraverso una forte ripresa della competitività e non attraverso la creazione di disoccupazione. Ma incredibilmente, in Italia, i governi Monti e Letta, non hanno fatto nulla del genere. Che farà il nuovismo del nuovo governo Renzi?

Per non essere fraintesi, si precisa che gli interventi strutturali sui prezzi sono parte integrante dei programmi di austerità. Il problema è che ogni società ha dei limiti di tolleranza della dose di riduzione dei costi e dei prezzi prima di sfociare in ribellione popolare, se non addirittura in guerra civile. Ad esempio, l’aggiustamento operato durante la repubblica di Weimar tra il 1929 e il 1933 fu del 23%, portò a violente proteste popolari seguite poi da un periodo ben peggiore! Nell’eurozona solo un programma concordato tra tutti i suoi membri potrebbe essere attuato. Per questo ci vuole una decisione politica. Ma, poiché un tale programma genererebbe necessariamente una spinta inflattiva è necessario il coinvolgimento preventivo della Bce che, con i Trattati attuali, ha le mani legate dal vincolo di “mantenere la stabilità dei prezzi”. Questa è la vera trappola dell’euro!

Questa trappola porta alle alternative per uscirne. Purtroppo tutte possibili ma estremamente pericolose se non avverse. La più immediata è uscire dall’eurozona e svalutare la propria moneta. Ripartirebbe l’economia e l’occupazione, ma il debito denominato in euro risulterà più costoso. Nel caso italiano, come ha scritto il prof. Alberto Bagnai, grazie al fatto che solo il 22% del debito è in mani straniere, si potrebbe faticosamente riuscire l’operazione in un periodo di 6-10 anni. Tuttavia, esisterebbero altri rischi, dal contagio alla speculazione che da soli sarebbero difficilmente controllabili.

Per uscire dalla trappola dell’euro, l’unica soluzione ipotizzabile è che tutti i membri coordinino un meccanismo di riallineamento, uscendo dall’attuale meccanismo di parità dell’euro e rientrando in un nuovo euro dopo aver compiuto il deprezzamento. Questa soluzione sarebbe praticabile a due condizioni che per ora non si vedono: a) convergenza politica e legalmente cogente; b) modifica del mandato statutario della Bce per aggiungere la creazione controllata di inflazione.

Altre soluzioni sono state avanzate dal Fmi che ha suggerito di applicare una sorta di politica keynesiana di stimolo alla domanda nei paesi centrali dell’eurozona, che poi farebbero da traino agli altri. Ma un tale suggerimento è stato scartato perché porterebbe i paesi periferici al collasso e non è neppure chiaro se e quando avvantaggerebbe i paesi centrali dell’euro che vedrebbero un aumento dei salari e dei prezzi insieme a una riduzione delle esportazioni. Inoltre, questa proposta non risolverebbe il già descritto meccanismo di trasferimento di capitali dal centro ai periferici che non ne traggono alcun vantaggio reale. Inoltre, parzialmente, qualcosa di simile è già stato tentato introno al 2009 con risultati pessimi.

Si devono abbandonare queste fantomatiche quanto teoriche soluzioni. Forse la migliore soluzione è di lasciare più libere di esprimersi le forze del mercato. Se l’obiettivo è il riequilibrio delle partite correnti, la competitività è il solo pre-requisito alla crescita. Se l’obiettivo è la riduzione dell’esposizione al debito all’interno della zona euro, gli interventi pubblici che ridirigono i flussi di capitali da nord verso sud devono essere drasticamente ridotti invece che espansi. I politici chiedono, invece, soluzioni contraddittorie: da un lato il riequilibrio delle partite correnti, ma allo stesso tempo il salvataggio con fondi pubblici. Un pasticcio che gli operatori istituzionali (Bce e Commissione europea) non hanno avuto il coraggio di denunciare.

Per risolvere il guaio creato dalla trappola dell’euro non resta quindi che annunciare ai popoli dei paesi membri un programma almeno decennale di seria austerità, stagnazione e reale svalutazione nei paesi in deficit, mentre negli altri paesi in surplus si vivrà lo stesso periodo con un’inflazione significativa. C’è da vedere se l’idea europea sopravvivrà al confronto con la realtà!

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