L’altra sera mi è capitato di rivedere la gag di Corrado Guzzanti che, nei panni di Giulio Tremonti, metteva in guardia tutti dal “cetriolo globale” della crisi che era in agguato. Divertente, ma da un certo punto di vista anche profetico: ciò che infatti pensavamo fosse uscito dalla finestra, sta per rientrare – quasi trionfalmente – dalla porta, dopo una lunga circumnavigazione garantita dalla Fed. La crisi, insomma. Lasciate stare l’Italia, ormai siamo un’entità completamente distaccata dalle logiche di mercato. Guardate la reazione dello spread martedì ai pesanti cali del comparto bancario in Borsa e alla performance generale del Ftse Mib, che ha chiuso a -2,33%: è sceso ai minimi record, come dimostra il grafico a fondo pagina. Ovvero, le azioni dei soggetti che detengono oltre 300 miliardi di titoli di Stato e che sempre martedì hanno annunciato sofferenze in crescita a 162 miliardi di euro (dato Abi) crollano e il differenziale di quegli stessi titoli di Stato scende ai minimi di sempre, festeggia.
E non fatevi irretire dal rimbalzone da gatto morto di ieri, perché ha un’unica ragione: ovvero, le dichiarazioni del ministro delle Finanze giapponese, Taro Aso, riguardo il mega-fondo pensioni Gpif (che gestisce 1.260 miliardi di dollari, il più grande fondo pensioni del mondo), il quale farà una mossa sul mercato azionario a giugno. Come dire, l’Abenomics non funziona e serve più stimolo: ma si sa, per il mercato le cattive notizie sono sempre belle notizie, se portano con sé nuovo metadone da parte del Sert delle banche centrali. Per carità di patria evito poi di entrare del tutto nel merito delle nomine nelle società partecipate, in sei anni di articoli su Il Sussidiario non ho mai preso una querela e non intendo offrire a Matteo Renzi questo privilegio: mi limito a dire che se la stampa estera plaude ma i titoli crollano, come accaduto sempre martedì, io comincerei a preoccuparmi per un altro 1992 (ecco magari perché chi sta nella stanza dei bottoni sta comprando Btp col badile) e a pensare di mettere il divieto di vendita allo scoperto su Finmeccanica, più che su Mps.
Ma torniamo al tema. La mia paura di ritorno della crisi si basa su due valutazioni: una che conoscete da tempo, ovvero gli enormi rischi connessi alla sgonfiatura della bolla e all’operato delle banche centrali in tal senso. La seconda, invece, è più strettamente geofinanziaria: la situazione ucraina, infatti, rischia di deteriorarsi e parecchio. Ma, soprattutto, Vladimir Putin comincia a non aver più tempo da perdere, deve agire in un senso o nell’altro. Il perché è presto detto: le aziende private russe sono state completamente escluse dai mercati di capitale a livello globale da quando è scoppiata la crisi ucraina, situazione che ha innescato un drastico credit crunch che potrebbe vedere quelle stesse ditte incapaci di rifinanziare i debiti contratti senza l’intervento diretto dello Stato.
Nelle ultime sei settimane non si è compiuto alcun roll-over su bond denominati in euro e questa situazione non può continuare ancora a lungo, visto che le aziende russe devono fare roll-over su 10 miliardi di dollari al mese e invece tutto è fermo: per ora i mercati hanno finto di non vedere, ma adesso sta per palesarsi sugli schermi dei trader il vero tallone d’Achille della Russia, il mercato obbligazionario.
Per Lars Christensen di Danske Bank, «l’economia russa è già in recessione e potrebbe contrarsi fino al 4% se dovessero essere inasprite le sanzioni, un fatto che potrebbe portare a una ripetizione di quanto accaduto nel 2008, con una fuga di capitali di massa che innescò default e crisi bancaria su larga scala. Stiamo già assistendo a uno squeeze del credito e a uno shock significatvo sul costo del capitale, di fatto per come è strutturato il sistema finanziario ed economico russo potremmo essere di fronte al rischio della loro Lehman Brothers. Dati ufficiali parlano di 65 miliardi di dollari di outflows di capitali da inizio anno, contro i 135 alla fine del 2008. I mercati nei fatti prezzano che il Cremlino non possa lasciare peggiorare ancora la situazione in Ucraina, ma le cronache di questi giorni ci dicono il contrario. Penso che ci sarà un’ulteriore, drastica correzione sui corsi azionari russi».
Nel suo report, Bank of America addirittura prospetta un drammatico showdown che possa portare a una guerra civile su larga scala, sviluppo che di fatto renderebbe quasi automatiche nuove sanzioni da parte di Usa e Ue, il cosiddetto “Stage III” già preparato dagli americani e accettato dai ministri degli Esteri europei che colpirebbe proprio soggetti economici e finanziari russi, già in sofferenza. Situazione, questa, che sta dimostrando come non serva essere nell’eurozona per diventare forse l’unica voce che conta nel gruppo: il ministro degli Esteri inglese, William Hague, infatti ha già spianato la strada alle scelte Usa, dichiarando che «ogni negazione di coinvolgimento da parte di Mosca in quanto sta accadendo manca completamente di credibilità. Dovranno esserci conseguenze se la Russia continuerà in questa escalation».
Insomma, parole chiare a fronte di un’Ue come al solito ondivaga: da un lato prepara piani per tagliare la propria dipendenza da gas e petrolio russo, congelando il progetto South Stream con Gazprom, ma di fatto pone in essere sanzioni unicamente simboliche sotto le pressioni dei paesi che hanno particolari rapporti commerciali con Mosca, Germania in testa. Anche perché da un lato quella del cosiddetto “nat gas” o gas naturale è una partita anche finanziaria non di poco conto, visto che la Cme ha alzato per tre volte in due settimane i margini sulle posizioni che riguardano questa commodity a fronte dell’aumento del prezzo e l’amministratore delegato di Cheniere Energy, Charif Souki, ha definito sul Financial Times «un totale non sense, a cui non posso credere che qualcuno creda» la possibilità di tagliare la dipendenza europea dal gas russo attraverso l’esportazione di gas naturale dagli Usa.
Notare che Cheniere Energy, dal prossimo anno, sarà il primo esportatore di gas statunitense, quindi il parere di Souki ha una certa rilevanza. Insomma, situazione pericolosamente fluida, ma che a livello economico sta già prendendo una direzione chiara: per Chris Weafer della Macro Advisory di Mosca, «gli investitori stranieri stanno già prezzando sanzioni più dure e le sanzioni di Usa e Ue sono già andate oltre le loro aspettative, rendendo le aziende che operano qui molto più prudenti su investimenti e accordi commerciali».
Insomma, a fronte di un’economia in recessione, rischi sul mercato obbligazionario e con un rublo debole – già sceso del 9% quest’anno -, Putin dovrà decidere cosa fare, anche se la decisione dei minatori di Donbass di restare fedeli a Kiev potrebbe congelare un po’ le tentazioni annessioniste del Cremlino verso obiettivi strategici a livello economico. E la questione legata al rublo è tutt’altro che limitata, visto che la banca centrale ha sì riserve per 490 miliardi di dollari da schierare, ma non sarà affatto facile iniettarle senza portare a una restrizione dell’offerta di valuta e a un peggioramento della recessione: finora si è lasciato che il rublo si deprezzasse, certo, ma si sono anche spesi 200 milioni di dollari di riserve al giorno per evitare che lo facesse troppo.
Così Mosca non può andare avanti per molto. E poi ci sono i numeri della dipendenza estera a fare paura, una delle ragioni per cui fino a oggi Putin ha ammassato truppe ai confini ma non ha dato il via libera all’invasione. Stando a dati contenuti in un report di Sberbank, prima banca del Paese, la Russia ha 714 miliardi di dollari di debito estero: 427 per le aziende, 207 per le banche e 62 per varie entità statali. Soltanto il gruppo petrolifero Rosneft dipende dal debito estero per il 90% delle sue necessità di finanziamento, mentre il mercato azionario russo dipende per il 70% da capitali stranieri. I quali hanno finora tenuto duro nonostante i cali, perché ingolositi dal rimbalzo che ha garantito all’indice moscovita di fare +15% rispetto agli altri mercati emergenti in febbraio, ma per quanto avranno ancora i nervi saldi e il fegato per restare?
Per Sberbank, ulteriori sanzioni potrebbero concretizzarsi in un crollo del 30% dell’indice Rts, destinato a rivedere quota 800, ma c’è anche il rovescio della medaglia: attualmente la ratio price/earning (prezzo/utili, è il rapporto fra il prezzo corrente di un titolo al momento del calcolo dell’indicatore, scelto di solito nel listino della Borsa nazionale coi maggiori volumi scambiati e l’utile atteso per ogni azione) è di 5.5 e addirittura sotto il 5.0 per Gazprom, Lukoil, Aeroflot, Lsr e per molte banche a controllo statale.
Quindi, comprare oggi è un affare, visto che – con il prezzo del petrolio a questo livello – siamo a un livello di valutazione come nel 2009. Vladimir Putin vieterà scalate ed eccessivi acquisti per tutelare le sue aziende? E come farà poi a mantenerle profittevoli, a questi prezzi e con quelle necessità di finanziamento finora affidate a investitori esteri? Statalizzerà tutto? Con quali soldi, bruciando tutte le riserve? Penso che al Cremlino, più che di strategia militare, in queste ore si stia parlando di geofinanza. Nella sua forma più spietata e cristallina. Ma attenzione, se sarà escalation, magari con nuove sanzioni, proprio come ha detto il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, la crisi economica che seguirà la pagheranno tutti, non solo la Russia. E il crollo dell’indice Zew, che traccia la fiducia delle imprese tedesche, registrato martedì parla esattamente questa lingua.