È la Cina il misterioso acquirente di debito Usa che ha fatto impennare la voce “Belgio” nelle detenzioni di Treasuries confermata dai dati del Tic statunitense, un’operazione strettamente legata a quanto esposto nell’articolo di ieri: ovvero, comprare debito americano per garantirsi la svalutazione dello yuan nei confronti del dollaro. Insomma, quell’ammontare è parcheggiato in Belgio – con ogni probabilità presso Euroclear, i cui addetti stampa ancora non si sono degnati di fornire una risposta – ma su disponibilità cinese e la prova di questo sta nel matching quasi perfetto tra aumento delle riserve cinesi, andamento delle detenzioni “ufficiali” registrate dal Tic da dicembre a marzo e aumento delle detenzioni belghe, sempre “ufficiali”, di Treasuries.
Lavorando a questo tema, il primo indizio mi è giunto da un articolo dello scorso 21 novembre nel quale si dava conto delle parole di Yi Gang, vice-governatore della Pboc, la banca centrale cinese: «Non è più favorevole per la Cina accumulare riserve in valuta straniera», adombrando invece la possibilità che la politica monetaria si sarebbe incentrata su acquisti in dollari per evitare l’apprezzamento dello yuan. Nel terzo trimestre dello scorso anno, le riserve cinesi sono salite di altri 166 miliardi di dollari, toccando la quota record di 3,66 triliardi di dollari, più del Pil della Germania, il motore economico europeo. Insomma, quei soldi andavano spesi, allocati altrove. Tanto più che, sempre stando a dati della Pboc, tra dicembre del 2013 e marzo di quest’anno – il periodo incriminato per l’acquisto di debito Usa da parte del Belgio – le riserve sono cresciute di altri 150 miliardi di dollari.
Ora, stando ai dati ufficiali del Tic cosa sappiamo? Che in dicembre la Cina ha venduto Treasuries per 48 miliardi di dollari, in gennaio per 2,7 miliardi, mentre in febbraio ne ha acquistati per 3,5 miliardi. Nello stesso periodo, dicembre-febbraio, le detenzioni denominate “Belgio” sono cresciute di 141 miliardi di euro. E cosa ci dicono questi dati? Da un lato che in dicembre la Cina è stata venditore netto di Treasuries, dato che ci viene confermato sia dal Tic riguardo le detenzioni, sia dall’altro report del Tesoro riguardo le transazioni: insomma, a ridosso dell’annuncio del “taper” da parte dell’allora numero uno della Fed, Ben Bernanke, Pechino rallentava un po’ il vigore del suo intervento sul mercato monetario attraverso gli acquisti in dollari.
Ma, come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, non così in fretta, visto che i dati sulle riserve valutarie della Pboc parlano chiaro e ci mostrano che le riserve sono continuate a crescere in dicembre, anche se a un tasso meno marcato che in ottobre e novembre. Quindi, o la Cina ha continuato a intervenire sul mercato a dicembre, ma lo ha fatto comprando meno Treasuries, oppure Pechino ha sì continuato a intervenire, comprando però il corrispettivo ammontare in Treasuries delle riserve da riallocare, ma attraverso centri bancari off-shore. E come ci dimostra il secondo grafico, la contemporaneità della crescita delle detenzioni di debito Usa denominate come “Belgio” con l’aumento delle riserve cinesi e il deprezzamento dello yuan sul dollaro pare più di un indizio.
Tanto più che ogni cambiamento sostanziale nelle detenzioni da parte di centri off-shore è sintomo di azionismo da parte di grandi soggetti operanti sul mercato, come appunto la Banca centrale cinese. Tanto più che, al di là del fatto che un aumento delle detenzioni del 25% in un mese per un Paese piccolo e con la politica monetaria decisa da Francoforte appariva da subito impossibile, le transazioni tra due entità residenti ma straniere non appaiono minimamente nei dati del Tic. E dato che gli stranieri erano venditori netti di Treasuries in dicembre, appare più che plausibile che la Cina sia stata acquirente netta di debito Usa, operando però off-shore e sul mercato secondario. E così in gennaio e febbraio, quando però agli acquisti off-shore finalizzati al non apprezzamento dello yuan, sono seguiti anche acquisti ufficiali – ovvero tracciati dal Tic -, forse per cercare di intorbidire un po’ le acque. Ma visto il tenore del report presentato martedì dal Treasury su richiesta del Congresso riguardo le politiche monetarie dei partner commerciali Usa, di cui vi ho parlato sempre ieri, pare che a Washington sapessero da tempo di questa pratica e stiano per perdere la pazienza.
Attendiamo i dati Tic relativi al mese di marzo ora, disponibili a metà maggio, anche perché se la Fed non ha lanciato un sasso nello stagno per cercare di stanare Pechino, proprio in quel mese un soggetto avrebbe scaricato 104 miliardi di debito Usa depositato proprio presso la Federal Reserve: la Russia, forse? Oppure il Giappone nel tentativo di far ripartire la svalutazione dello yen, a fronte di un Abenomics che non sta affatto sortendo gli effetti sperati? Già, perché per un giorno e mezzo interi, questa settimana, il bond decennale giapponese, il benchmark, non è stato in grado di attrarre nemmeno una singola domanda da parte del settore privato per la prima volta da tredici anni a questa parte. Zero! Con quello spread così depresso, nessuno vuole la carta nipponica, se non la stessa Bank of Japan, la quale con le sue detenzioni di debito governativo arrivate a 200 triliardi di yen (1,96 triliardi di dollari), il 20% di tutte le emissioni e in aumento di oltre la metà dei 125 triliardi di yen dello scorso anno, ha di fatto drenato la liquidità dal mercato obbligazionario. E visto che la Bank of Japan ha fatto capire che la sua politica aggressiva di acquisti andrà avanti almeno un altro anno, il crollo della liquidità sul mercato non potrà che peggiorare.
E se i broker sono riluttanti a posizionarsi short, temendo di non poter ricomprare quando vogliono, in pochi credono a un aumento del prezzi, quando lo yield del decennale nipponico è allo 0,6%. La media della banda di trading dei futures sul prezzo del bond giapponese a 10 anni questo mese è stata dello 0,15, contro lo 0,50 del pari durata statunitense: basti dire che il volume di trading nel cash bond benchmark questo mese è stato di meno di un triliardo di yen, il 70% in meno dello stesso periodo dello scorso anno. E se anche lunedì la Bank of Japan ha riprogrammato il suo repo sui bond giapponesi, vendendoli due volte al giorno invece che una, i timori per un crollo totale della liquidità nel mercato obbligazionario giapponese è reale, visto che ben pochi traders sono pronti a ingaggiare una battaglia con la Bank of Japan, la quale sembra pronta a drenare dal mercato altri 60-70 triliardi di yen.
Insomma, qual è il rischio? Che, come accade ora, il resto del mondo si rifiuti di prestare denaro al Giappone – nazione con ratio debito/Pil al 200% e in crescita – per dieci anni ottenendo un rendimento dello 0,6% e quindi Tokyo si trovi di fronte a due alternative. Primo, monetizzare virtualmente tutto il suo futuro finanziamento a prestito oppure, secondo, permettere ai tassi di interesse di salire e pagare due o tre volte in interessi futuri. Se quest’ultima opzione sarà la prescelta, rischierà di paralizzare un’economia come quella nipponica in grado di funzionare solo quando e se il costo del finanziamento è quasi a zero. Ma queste cose sull’Abenomics i grandi media non ve le dicono, per loro è il successo economico del secolo e il modello da seguire. Buona Pasqua a tutti.