La ripresa economica della Spagna si rafforza, con il Pil che ha registrato il +0,4% nei primi tre mesi dell’anno. Un tasso di crescita che è stato il più alto in sei anni, dopo lo 0,2% del trimestre precedente. Non sono grandi numeri, anche perché la disoccupazione spagnola è ancora al 25%, ma qualcosa si sta muovendo grazie a un piano di riforme messo in atto già nel 2010-2011. Come sottolinea Andrea Giuricin, fellow dell’Istituto Bruno Leoni e profondo conoscitore della realtà spagnola, «le misure messe in atto da Rajoy sono un modello per l’Italia, soprattutto per quanto riguarda il mercato del lavoro».



Ritiene che il +0,4% della Spagna sia stato sottolineato dai media con eccessiva enfasi?

No. La Spagna è uscita dalla recessione e sta dimostrando buoni segnali di crescita, sia pure solo dello 0,4%. La disoccupazione è sicuramente troppo elevata, ma al contempo sta diminuendo. Ormai sono sette-otto mesi che l’occupazione torna a crescere, con un incremento dell’offerta di posti di lavoro pari a 115mila unità negli ultimi 12 mesi. Le riforme di Rajoy hanno reso il mercato del lavoro più flessibile, sia in entrata che in uscita, migliorando e rendendo più certa la possibilità di licenziare. Il tallone d’Achille della Spagna rimangono le banche, e anche se è stata creata una “bad bank” a livello statale, le sofferenze rimangono intorno al 12-13%.



La Spagna come ha ottenuto questa inversione di tendenza a livello economico?

Le riforme sono iniziate molto prima che in Italia, già nel 2010-2011. Lo stesso Zapatero, nell’ultima fase del suo mandato, ha deciso di tagliare la spesa per quanto riguarda i dipendenti pubblici. Le riforme di Rajoy hanno migliorato ulteriormente la situazione e dal punto di vista economico l’inversione di tendenza è arrivata nella seconda metà del 2013.

Da circa dieci mesi la Spagna ha iniziato a crescere creando lentamente occupazione. Quali riforme sono state decisive?

Secondo diversi studi economici, per creare occupazione in Spagna era necessaria una crescita di almeno l’1%. In realtà il Pil è cresciuto tra lo 0,1% e lo 0,4%, ma è stato sufficiente a creare posti di lavoro grazie alla riforma di Rajoy. Il governo ha inoltre tagliato i bilanci delle Comunità autonome, il corrispettivo delle nostre regioni.



L’Italia potrebbe imitare alcune delle riforme attuate dalla Spagna?

Sicuramente. Per quanto riguarda la riforma del lavoro, l’Italia ha tanto da imparare. Noi stiamo cercando di risolvere il problema della disoccupazione pensando solo alla flessibilità in entrata, come era già avvenuto con la riforma Biagi. Al nostro mercato del lavoro manca però la flessibilità in uscita, cioè la certezza di poter valutare le persone in base al merito ed eventualmente licenziarle. Ciò significherebbe poter creare nuovi posti di lavoro, pur con una crescita molto bassa.

 

Attraverso quali strumenti si garantisce la flessibilità in uscita?

Attraverso una maggiore economicità nel licenziamento, che nel momento della ripresa ha reso molto più aperto e contendibile il mercato del lavoro. In Spagna per licenziare bastano 20 giorni di preavviso e 20 giorni di indennità per ogni anno lavorato. Per un’azienda è importante avere la possibilità di licenziare le persone in esubero per motivi economici.

 

Come si spiega allora che, nel 2013, 546mila persone abbiano lasciato la Spagna per un altro Paese?

Si tratta in larga parte di immigrati e nel complesso il saldo negativo è stato di 400mila persone. La popolazione complessiva della Spagna è scesa da 47,1 milioni di persone a 46,7 milioni. Gli immigrati spesso sono impiegati nell’edilizia, che si è sgonfiata bruscamente in seguito alla crisi immobiliare, e quindi numerosi stranieri che lavoravano come muratori sono stati costretti a lasciare la Spagna.

 

(Pietro Vernizzi)