Dunque, il mantra di quasi tutti i politici – compreso Matteo Renzi – in vista delle elezioni europee del 25 maggio prossimo è “ridiscutere i Trattati”. Come? Non si sa. In base a quali criteri? Non pervenuto. Negoziando con chi? Buio pesto. L’unica certezza è che si vogliono ridiscutere i Trattati, ovvero il famoso tetto del 3% deficit/Pil imposto un’era geologica fa da quello di Maastricht e poi il “Fiscal compact”, il simpatico regalino che l’Ue ci ha imposto quando il nostro spread volava alto, la Bce ci scriveva le letterine e che di fatto condannerà l’Italia a tassi di crescita frazionali per i prossimi vent’anni.



Al netto del fatto che oggi si sentano lanciare strali contro quel vincolo europeo proprio da chi l’ha votato in Parlamento senza battere ciglio, vorrei dirvi chiaramente una cosa sola: non si può ridiscutere alcun Trattato. O si esce dall’euro o arriva un evento stile 2008 che fa sospendere le follie europee dalla loro entrata in vigore oppure il dado è tratto. Non c’è proprio nulla che si possa ridiscutere. D’altronde, è l’Europa a ripetercelo a ogni piè sospinto. Martedì, ad esempio, ci ha pensato quella mente illuminata del presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem (esatto, proprio il genio che ha istituzionalizzato il “modello Cipro” per le future ristrutturazioni), a detta del quale «l’Italia deve pensare a fare le riforme, piuttosto che invocare lo sforamento dei vincoli di bilancio richiesti a livello comunitario, per tornare competitiva e dare un impulso all’intero recupero economico del Vecchio Continente». Inoltre, «è troppo presto per dare una valutazione delle riforme annunciate dall’Italia, che verranno discusse nell’ambito della valutazione complessiva. Ma le raccomando, come a tutti, di attenersi agli accordi e alle procedure». Più chiaro di così.



E oggi che i partiti vi chiedono il loro voto per le europee, è il caso che sappiate come sono andate davvero le cose e quale follia la quasi totalità dei nostri eurodeputati oggi a fine mandato – ma volonterosi di ottenerne un altro – ha approvato con il proprio sì pronunciato a Bruxelles. Ammetto la mia ignoranza, questo delirio da Unione Sovietica mi era sfuggito, ne ho sentito parlare e sono andato a fare qualche ricerca al riguardo. Occorre però fare un passo indietro di quasi due anni e arrivare al 13 giugno del 2012, giorno in cui il Parlamento europeo ha approvato il regolamento per rafforzare la “governance” dell’Unione, con due risoluzioni.



La prima (Gauzes, dal nome del relatore), approvata con il 73% dei voti favorevoli, ha sancito il principio di assoggettamento a tutela giuridica di uno Stato membro a partire dall’anno 2017. Ovvero, tanto per parlare non burocratese, i governi dei vari Stati membri metteranno in pratica le misure raccomandate dalle istituzioni europee, i famosi “compiti a casa”, e dovranno poi presentare alla Commissione un piano di ripresa e di liquidazione dei debiti per ottenere il via libera: di fatto, i governi nazionali dovranno soltanto limitarsi a fare ciò che l’Europa dice loro, non conteranno più niente.

C’è poi la seconda risoluzione (Ferriera, sempre dal nome del relatore), approvata con il 74% dei voti favorevoli, la quale introduce il fondo Erf, ovvero European redemption fund. Cosa comporta questo? È l’ennesimo fondo salva-Stati che l’Italia dovrà finanziare senza, di fatto, poterne beneficiare in caso di necessità perché “troppo grande per essere salvata”? No, è peggio. Con la ratifica di questo accordo, gli Stati membri accettano di trasferire nel fondo gli importi di debito pubblico superiori al 60% del Pil – in ossequio a quanto previsto dal Fiscal compact – nell’arco di un periodo di avviamento di cinque anni, ad attuare una strategia di consolidamento di bilancio e un’agenda di riforme strutturali, a costituire “garanzie” per coprire adeguatamente i prestiti concessi e a ridurre i disavanzi strutturali. L’Italia dovrebbe partecipare al fondo con la quota maggiore (circa il 40% come ci mostra il grafico), ovvero con quasi mille miliardi di euro, questa è approssimativamente, infatti, la cifra necessaria per riportare il debito pubblico al 60% del Pil.

E questo cosa comporterà (volevo usare il condizionale, ma sarebbe significato prendere in giro voi e me)? Che per garantire quella cifra si dovrà cedere per circa 25 anni una frazione maggioritaria del gettito delle imposte, vendere una parte del patrimonio pubblico e dare in pegno pressoché tutte le riserve auree (circa 80 miliardi di euro di controvalore) e di valuta estera. E attenzione, in caso non si riescano a onorare i patti sottoscritti, ovvero a raggiungere i risultati richiesti in fatto di riduzione del debito, questo collaterale a garanzia andrà completamente perso, requisito dall’Ue. Ora, la partecipazione a questo fondo non riguarderà solo i paesi cosiddetti “periferici” ma anche Austria e Germania che sono arrivate a una ratio debito/Pil di circa l’80% come dimostra il grafico a fondo pagina, ma per quegli Stati la tagliola sarà evitata. Per noi no. D’altronde, chi ha formulato questa proposta per evitare che prendesse piede il processo di costituzione degli eurobond? Un gruppo di economisti del Consiglio tedesco di esperti economici (Sachverstaendigenrat). Geniale, manco la decenza di nasconderle le mire egemoniche.

Vediamo di capire meglio il meccanismo. L’Erf potrà emettere obbligazioni con durata massima ventennale, arco temporale passato il quale verrà liquidato. In pratica, i buoni di questo fondo saranno di anno in anno sempre minori e la differenza sarà appunto la quota di debito che ogni Stato sarà chiamato a ridurre. Una manovra del genere richiede ovviamente delle garanzie e quindi – come anticipato – a copertura del 20% del debito del fondo saranno posti alcuni assets dello Stato, incluso l’oro della Banca d’Italia (proprio quello che con la ricapitalizzazione delle quote di Palazzo Koch voluta da Letta e garantita dalla “tagliola” della Boldrini, di fatto, non è più nostro ma delle banche) e circa l’8% delle entrate tributarie che di fatto saranno pignorate entro questa soglia.

Come già detto prima, il ritardo dei pagamenti farà scattare l’appropriazione dei beni in garanzia. Il fatto è che, calcoli alla mano, per fare i “compiti a casa” e non vedersi requisiti i beni dello Stato, l’Italia dovrà contribuire ogni anno con una quota di circa il 4% del Pil, la quale però non potrà essere ricavata da indebitamento ulteriore, poiché il livello del 60% deve rimanere tale, visto che i fenomeni che abbiamo in Parlamento hanno votato sì al vincolo di bilancio espresso in Costituzione.

Ora, lasciandoci andare a ragionamenti a dir poco lisergici, ci rendiamo conto quale tasso di crescita dovrebbe avere l’Italia per ottemperare a quel vincolo senza creare nuovo debito? Dovremmo viaggiare a una media di crescita nominale del Pil di oltre il 3%, con tasso d’inflazione almeno all’1,5%: insomma, dinamiche di oltre trent’anni fa, praticamente impossibili in un contesto, come quello attuale, di crescita zero e quasi deflazione conclamata. Direte voi, da qui a tre anni la situazione sarà migliorata e si tornerà a dinamiche di crescita più sostenuta. Probabile, lo spero ma comunque l’Italia dovrebbe imbracciare un trend cinese per farcela, visto che il tutto, poi, va fatto dovendo tagliare per i prossimi vent’anni, in ossequio al “Fiscal compact”, 50 miliardi dal bilancio dello Stato!

Avete capito cosa hanno votato i nostri geniali europarlamentari e quelli degli altri Paesi due anni fa!? E in base alle regole dell’Erf chi sfora non si prende solo una procedura d’infrazione o l’esposizione al pubblico ludibrio sul Financial Times: no, questa volta ci si vede confiscati, per sempre, i beni posti a garanzia. La svendita del Paese non completata sul Britannia, ora è servita. Con tanto di vincolo in Costituzione.

 

P.S.: Martedì è arrivato il via libera a nuovi aiuti per la Grecia: in totale saranno 8,3 miliardi di euro, di cui 6,3 a fine aprile, uno a giugno e l’altro a luglio. L’ok è arrivato dopo che l’Eurogruppo si è detto soddisfatto delle misure poste in essere dal governo ellenico, quali la liberalizzazione di servizi e professioni e del comparto energetico. Guarda caso, i fondi sono arrivati giusto in tempo perché Atene possa rimborsare il titolo da 9 miliardi detenuto dalla Bce e in scadenza a maggio. Quindi, trattasi di aiuti alla Bce e non alla Grecia. Poi si lamentano perché gli euroscettici faranno il pieno il 25 maggio…