L’istituzione delle città metropolitane pone rilevanti interrogativi circa i mutamenti cui andranno incontro gli assetti di governo del territorio dei prossimi anni. Questi riguardano il ruolo dei sindaci, la composizione dei consigli, il rapporto multilivello tra città metropolitane e altri attori istituzionali (regioni, unioni di comuni e comunità montane); ed ancora la riorganizzazione conseguente al nuovo ruolo e alle nuove funzioni, un rinnovato rapporto tra politica e cittadinanza. E’ di questo che oggi occorrerebbe discutere ed è su questo che bisognerebbe alzarsi le maniche e darsi da fare. Purtroppo, però, la trasformazione in legge del ddl Delrio, avvenuta in questi giorni, sta facendo venire fuori molte delle cassandre giuridico-amministrativiste che hanno sentenziato in materia in questi ultimi 23 anni senza addivenire ad alcun risultato.
Tutti i processi di cambiamento richiedono un necessario tempo di aggiustamento ma soprattutto la convinzione che si stia andando nella giusta direzione. La direzione è quella giusta e la strada sarà irta di difficoltà, ma l’obiettivo finale è chiaro e definito. La legge Delrio è innanzitutto una politica di riordino e semplificazione dei livelli locali di governo, già in atto in diverse città europee, con la finalità di avvicinare i confini istituzionali dei governi locali a quelli funzionali e liberare le istituzioni metropolitane dalla gabbia di produzione normativa sedimentata in questi anni.
Ma chi sono queste città metropolitane? Esse interesseranno una popolazione di circa 18 milioni di abitanti, pari al 30% del totale della popolazione italiana, e oltre mille comuni. Saranno aree più giovani delle città che ora ne sono i capoluoghi, con una percentuale media di minorenni pari al 17%. Sono città con un reddito medio (21,81 mila euro) superiore alla media nazionale (19,31 mila euro), e con un tasso di nati-mortalità delle imprese positivo (0,3%, contro la media paese negativa che si attesta a quota -0,4%).
Sono però anche città con un tasso di criminalità (63 delitti denunciati per 1.000 ab.) superiore a quello medio nazionale (47) e nelle quali si assiste ad una forte concentrazione del reddito nelle mani di pochi: l’1% dei contribuenti dichiara un reddito superiore ai 120.000 euro, mentre un cittadino su tre vive con meno di 10.000 euro annui. Inoltre sono città composte per oltre un terzo (35,7%) da comuni specializzati nel primario, settore economico che ha subito l’impatto maggiore della crisi dell’imprenditoria dilagata in Italia dal 2007.
Questi pochi dati, insomma, parlano di rischi e opportunità ma soprattutto di sfide. Le sfide sono quelle relative alla definizione di nuovi modelli e processi di governance su ambiti territoriali nuovi che attendono, in particolare, le conferenze statutarie, cioè gli organi chiamati a scrivere gli statuti delle città metropolitane. Ma una grossa sfida è anche quella relativa alla legittimità democratica della governance metropolitana. Non a caso la modalità elettiva di secondo livello (saranno cioè i sindaci e i consiglieri dei comuni delle città metropolitane a eleggere sindaco e consiglio di queste ultime) pone l’esigenza di istituti di partecipazione che contribuiscano a creare quella “neopopolazione metropolitana” senza la quale la riforma rischia di generare solo un nuovo mostro istituzionale, come in parte è stato per le Regioni.
Al contrario la governance metropolitana è già da tempo una realtà in molte delle aree interessate dalla riforma, prima ancora che neonata istituzione. Nell’area vasta diversi strumenti di governo hanno assunto nei fatti una scala metropolitana: tra gli altri la pianificazione strategica (istituita per legge ormai dalla riforma), la pianificazione del territorio e l’attivazione di agenzie di sviluppo urbane. L’istituzione delle città metropolitane, finalmente, interviene a sistematizzare una realtà già esistente, a dotare gli attori interessati di nuovi strumenti e nuove competenze e a corredare le città metropolitane di una legittimazione fin qui non data. Ecco perché bisogna assolutamente evitare che il dibattito odierno si risolva in un “riformismo declamatorio” che lascia spazio a un già visto “gradualismo tacito” nel quale sembra essersi impantanato il nostro sistema democratico.