Potremmo chiamarla la sfida dello 0,2%, che è la differenza tra la crescita obiettivo del governo per quest’anno (0,8%) e la stima che trova concorde il Fondo monetario internazionale e l’Unione europea (0,6%). Sembrano pochi due decimali di punto, ma fanno la differenza, sono loro a consentire il rispetto dei vincoli europei e nello stesso tempo una ripartenza della congiuntura. Un’inezia statistica che rappresenta uno psicodramma politico e sociale prima ancora che economico. Il consiglio dei ministri ieri sera ha varato il Documento di economia e finanza, cioè la gabbia di compatibilità dentro la quale si muoverà la politica economica, sapendo bene che tutto si regge su un fragile architrave.
La crescita è una scommessa basata sulla spinta che verrà data dallo stimolo fiscale e dal pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione. A loro volta queste due leve potranno essere azionate senza dilatare il deficit pubblico se verranno rispettati gli obiettivi della spending review. L’una trave tiene l’altra, entrambe reggono l’intero edificio.
Per capire davvero bene come stanno le cose occorre leggere il documento che nei suoi dettagli non è ancora disponibile. Il decreto per il taglio al cuneo fiscale verrà presentato solo il 18 aprile. Quindi siamo ancora agli annunci, dobbiamo basarci sulle parole. Renzi ha detto che il costo da maggio a dicembre sarà di 6,7 miliardi. Le coperture verranno «per 4,5 miliardi dalla spending review e per 2,2 dall’aumento del gettito Iva e dall’aumento al 26% della tassazione sulla rivalutazione delle quote Bankitalia, quindi pagheranno le banche», ha commentato il presidente del Consiglio, confermando il «mantenimento dei parametri europei entro i limiti» di Maastricht, «ma soprattutto il mantenimento del deficit al 2,6%». Dunque c’è un passo indietro, Renzi ha dovuto accettare la legge bronzea dell’Unione? Certo, andare al 2,8% avrebbe significato di fatto sfondare il tetto visto il trascinamento dal 2013. Anche qui c’è uno 0,2% che ricorre come una maledizione.
La revisione della spesa darà quello che aveva detto Cottarelli e non quello che avevano messo in giro i corifei del governo. E da sola non basta per coprire il taglio dell’Irpef. Il resto sarà trovato con un’operazione di tagli e ritagli che assomiglia tanto a quelle del passato e molto poco ai voli pindarici di Renzi. Potremmo dire che se c’è una cosa che non è stata rottamata è proprio la vecchia manovra di bilancio.
Non solo. Renzi non è sembrato così entusiasta della ricetta Cottarelli. «Cottarelli ha proposto un taglio molto ampio, lo valuteremo, non ci saranno tagli lineari». «Sulla salute spenderemo di più non di meno perché si invecchia di più e invecchiando crescono le malattie, non diminuiscono», ha aggiunto Renzi. Interessante, il problema non è tanto il di più, ma il come e il dove: la spesa sanitaria infatti in Italia non cambia con la curva demografica, ma semmai con la curva dell’efficienza e della correttezza amministrativa.
Il deficit strutturale sarà “praticamente” in equilibrio l’anno prossimo e “nominalmente” nel 2016. Il gioco degli avverbi ha un sapore d’antico. In sostanza slitta. Niente male, visto che nessuno lo rispetta e la Francia chiede un nuovo rinvio. Il problema è l’impatto sui complessi meccanismi del Fiscal compact che richiede un pareggio strutturale già dal prossimo anno. Certo, fatta la legge trovato l’inganno e ciò vale anche per i tetragoni accordi europei, infatti chi ha letto le norme del patto fiscale e dei suoi annessi sa che esistono possibilità di negoziato e qualche scappatoia, purché sia concordata. Ma una cosa è certa: chi crede nella finanza in equilibrio deve concludere che non siamo ancora all’ultimo miglio.
Si è parlato molto di riforme, ma aspettiamo di vederle nero su bianco, a cominciare da quella sul mercato del lavoro. Molta enfasi è stata data alle privatizzazioni e sono state lanciate anche cifre iperboliche come 40 miliardi già quest’anno. Il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, più realista, ha detto che la vendita di una quota delle Poste e dell’Enav è in fase avanzata. Ma certo il ricavato sarà ben lontano rispetto alle speranze da chi ha dato i numeri. Non si cedono né l’Eni, né l’Enel, né Finmeccanica, le uniche (soprattutto le prime due) che avrebbero potuto dare un gettito consistente. Forse è giusto per motivi strategici, ma tant’è. Anche la vendita degli immobili che doveva essere avviata dal fondo ad hoc, è finita nel dimenticatoio.
In conclusione, di consistente c’è solo l’Irpef. Rappresenta la vera novità del governo Renzi e ha un importante valore simbolico: per la prima volta dopo tanti anni si riducono le tasse e il governo fa aumentare le buste paga. Vedremo se sarà in grado di invertire le aspettative. Certo, non si capisce come riusciremo a rispettare il Fiscal compact che, lo ricordiamo, richiede una riduzione di 73 punti di Pil a scalare. E, per evitare nuove stangate, una crescita del prodotto lordo monetario (compresa l’inflazione) del 3%. Quest’anno non ci siamo. E se i prezzi cadono ancora non ci saremo nemmeno l’anno prossimo. Il rapporto di primavera del Fondo monetario internazionale, infatti dà una crescita di 1,3 punti quest’anno e di 2,1 nel 2015. Dunque, o più sviluppo o più tagli o entrambi. Ne riparleremo a giugno, dopo le elezioni europee.