Tutti sappiamo che esiste una differenza tra deficit e debito pubblico. Il debito si accumula in anni di deficit, di deficit annuali, che insorgono per diversi e svariati motivi: deficit commerciale anziché surplus, entrate fiscali che non compensano le spese, bassa crescita economica, che non consente appunto di ampliare l’area dell’estrazione delle imposte, ecc.



Naturalmente questa differenza tra deficit e debito introduce un elemento temporale e ogni volta che si introduce un elemento temporale anche coloro che credono in un’economia sempre in equilibrio sono costretti a pensare in modo diacronico, ossia storico. Ma la forza della canzonetta tedesca (di cui ho parlato nel precedente articolo) è tale che la storia è stata intesa, in quest’ultimo quarto di secolo, dimenticando ogni differenza tra deficit e debito e, soprattutto, dimenticando le cause che alimentano il deficit e quindi alimentano il debito. Si è operato come si fa per far dimenticare le differenze di classe nella società. Si descrive quest’ultima usando la metafora di Menenio Agrippa: cuore, braccia, gambe, ecc., tutto dev’essere armonico e condurre alla salute, alla pace, alla prosperità.



Una mano lava l’altra. Ora, al posto di Menenio Agrippa, si è ingenerato il simbolo del vecchio che uccide il nuovo. E questo ha qualche cosa di stupefacente. In un’economa monetaria come quella capitalistica dove le persone sono reificate in merci, le strutture economiche si sono all’improvviso personalizzate e si è creata la lotta tra giovani e vecchi. Udiamo storie in Europa che non udiamo in nessun’altra parte del mondo: “Le giovani generazioni non devono pagare i guasti provocati dai vecchi. Lasciamo sulle spalle di ogni nuovo nato un debito pubblico di diverse migliaia di euro”. Filastrocche che se le raccontate in Usa e in Giappone tutti si mettono a ridere, politici in testa, bene attenti a non stravolgere il loro elettorato e a perdere voti tanto tra i vecchi quanto tra i giovani.



Ma per sostenere la favola del contrasto tra generazioni in merito al debito pubblico occorrerebbe in primo luogo dimostrare, come si chiedeva il grande Karl Mannheim, se esistano veramente le generazioni e se non si tratti invece di una convenzione puramente statistica per mettere un po’ di ordine nel mondo. Un personalista cristiano, per esempio, non potrebbe mai cadere in questa trappola, perché sa che ogni persona è tale perché è sempre unica, irriproducibile, insostituibile. Come diceva Ranke: “Ognuno sta solo di fronte a Dio”. Ma lasciamo perdere, perché ora questi discorsi non interessano più a nessuno.

Per riprendere una certa contezza dell’essere e capire in che situazione siamo economicamente e socialmente in Europa, e quindi in Italia, dobbiamo cominciare a smontare la macchina ideologica e menzognera del debito pubblico come lotta tra generazioni. Solo così facendo si può del resto veramente aprire una prospettiva per le nuove generazioni che sono annichilite oggi dall’altissima disoccupazione e dalla crisi del sistema educativo. Guardiamo, per esempio, alla spesa pubblica in forma comparata e vediamo che l’Italia è uno dei paesi europei dove è più bassa. Questo vuol dire fondamentalmente che i deficit, e quindi il debito, sono un prodotto della bassa crescita economica e che il primo fattore di questa crescita economica inerisce al problema demografico – perché è questo che sottostà al rapporto tra generazioni: il problema sono i tassi di attività della popolazione. In Italia sono tra i più bassi al mondo. Ossia in percentuale si inizia tardi a lavorare e si finisce più presto di quanto non accada in altri paesi europei. La popolazione attiva invece di allargarsi si è secolarmente ristretta, senza tuttavia che a questo restringimento si sia accompagnato un aumento della produttività del lavoro. Ciò ha costituito l’ambiente più idoneo per il calo degli investimenti e per il calo della propensione all’investimento in attesa di profitto.

In questo senso capiamo cosa vuol dire la bassa competitività di un Paese. Se io non riesco ad allargare la popolazione attiva e a mantenere stabile e a far crescere l’andamento del tasso dei profitti non riuscirò ad ampliare la base delle entrate fiscali e quindi avrò meno risorse pubbliche e private per affrontare e risolvere le spese infrastrutturali che accompagnano ogni crescita. Crolla così la cosiddetta Total Factory Productivity che misura non solo la produttività del lavoro ma l’efficienza dei sistemi complessi che generano il volume della ricchezza materiale delle nazioni, ponendole in tal modo su diversi livelli della scala della produttività mondiale.

Si comprende bene che qualsiasi sistema complesso, come è una società con decine di milioni di abitanti, abbisogna di infrastrutture per produrre e riprodurre i cicli sociali. Se la produzione genera bassa crescita e basse entrate fiscali, non solo aumenta il debito pubblico, ma diviene assai difficile la riproduzione sociale, perché si configura asimmetrica rispetto – da un lato – ai bisogni e – dall’altro lato – ai finanziamenti che occorrerebbero per soddisfare questi ultimi.

Consideriamo il fatto che per la riproduzione della società, fino a quando non si interrompe per degenerare in un atomismo distruttivo alla Hobbes, i fabbisogni minimi relazionali devono essere soddisfatti. Se non lo si fa con la crescita economica che genera spesa pubblica senza deficit e senza debito, lo si farà con l’abbassamento della crescita con sempre più forti aumenti dei deficit e quindi del debito. L’alternativa a quest’ultima soluzione è la distruzione della società, come si è scientemente tentato di fare in Grecia da parte della cosiddetta Troika deflazionistica e protesa a distruggere il sistema sociale non solo greco, ma europeo. Riuscendovi, tuttavia, solo in parte per la tenuta del sistema politico e per le forti radici tradizionalistiche che quella società ha mantenuto intatte, anche se trasformate (famiglia allargata, ruolo direzionale degli anziani, ecc.), che ha sostituito il welfare state con quello solidaristico e comunitario, “naturale” e associativo.

Come si vede, anche i temi della macchina dei partiti e del sistema politico ineriscono ai temi della spesa pubblica e del debito pubblico e non solo nel senso di accrescere le rendite parassitarie che clientelismo politico diadico o di gruppo ingenerano (i paesi del Sud Europa e del Sud America sono studiati in tutto il mondo a questo proposito), ma anche nel senso di trovar dimostrazione del fatto che un sistema politico ben istituzionalizzato, e quindi autonomo dalla società civile e dalle sue degenerazioni, può svolgere un ruolo positivo per eliminare posizioni rent seeking, ossia di spese che non sono più spesa pubblica ma invece sprechi pubblici.

Ci fermiamo qui. Questo credo basti per far capire che il tema del debito pubblico è ben più vasto di quello narrato dagli ideologi della guerra tra generazioni, che non solo non sanno di storia: quando la sanno, la falsificano.

 

(2- fine)