Ogni anno si svolge allo Château de la Muette, sede dell’organizzazione, la “settimana Ocse”. Di norma è organizzata in due eventi distinti, separati da una mezza giornata: il primo è un “forum” a cui partecipano (in varie sessioni-plenarie, tematiche e “incontri con gli autori” di libri recenti su argomenti economico sociali) un migliaio di esperti invitati dall’Ocse; il secondo è la sessione annuale ministeriali dei 34 Stati membri dell’organizzazione e ha come tema unificante il rapporto sullo stato e le previsioni dell’economia mondiale presentato (e discusso) nei giorni del forum.



Quest’anno, i due eventi sono in parte coincisi nel senso che la “ministeriale” è iniziata nel pomeriggio del giorno in cui si concludeva il “forum”. Una ragione pratica è che il key note speaker è stato il Primo Ministro nipponico Shinzo Abe (in occasione del cinquantenario dell’ingresso del Giappone nell’organizzazione) e che erano presenti esponenti politici di rilievo dell’Asean (l’associazione degli Stati del Sud-Est Asiatico), dell’Australia e della Nuova Zelanda per la conclusione di un accordo di cooperazione tra Ocse e quel “bacino del Pacifico” dove sta nascendo un mercato comune e si stanno ponendo le fondamenta anche di un vasto accordo monetario.



La stampa d’informazione ha riferito i dati essenziali delle previsioni Ocse, giunte, peraltro, quasi in parallelo con quelle della Commissione europea. Invitato dall’Ocse, ho partecipato a varie sessioni del “forum” e ne trarrò spunti per interventi su questa testata nelle settimane successive. A mio avviso, il tema più urgente su cui meditare sono le lezioni per l’Italia di una settimana all’insegna del binomio resilience (ossia resistenza alle disavventure, tra cui pure le fasi economiche difficili) e “crescita inclusiva” (ossia tale da ridurre esclusione sociale e differenze tra fasce di reddito).



Sono temi che ci toccano da vicino nelle settimane in cui istituti di ricerca pubblici e privati ci bombardano di dati sul “senso di sfiducia” degli italiani a fronte del crescere della disoccupazione e dell’ampliarsi dell’area del disagio sociale. Sono temi che riguardano l’Ocse in modo asimmetrico: i 50 milioni che cercano lavoro senza trovarlo sono spalmati in modo differente nelle varie aree; pur tuttavia, anche in quelle (Asia, Nord America) dove c’è crescita economica i divari tra fasce sociali stanno aumentando.

Prima di andare sulle terapie, una nota positiva (che nessun organo di stampa ha diffuso): nel corso del “forum” sono stati distribuite brevi monografie su come i cittadini dei vari paesi considerano la loro “qualità della vita” in termini di benessere complessivo. Sono l’esito di indagini campionarie condotte, seguendo un metodo di uniforme, in un gruppo di Stati (l’esercizio è ancora in corso). Ebbene, in termini di impegno civile, senso comunitario, lavoro, ambiente, istruzione, l’Ocse “percepisce” che gli italiani stanno meglio di americani e svizzeri; meno di loro in termini di reddito, equilibrio tra lavoro e vita priva, abitazione. Di gran lunga, molto meglio dei francesi in tutte le categorie dell’indagine.

Data la nostra tendenza mediterranea alla melanconia e al “piangersi addosso”, credo sia un dato importante. Mi spiace che nessuno dei venti giornalisti nostri connazionali presenti al “forum” abbia dedicato un rigo a questo punto nelle loro corrispondenze.

Ma andiamo al succo: come diventare più resilient? E come orchestrare una crescita “maggiormente inclusiva”? Alla prima domanda deve rispondere ciascuno di noi. I dati sulla percezione della qualità della vita possono essere un buon punto di partenza per diventare più forti e darsi coraggio anche in una fase come l’attuale caratterizzata da anni di difficoltà. I giapponesi, i coreani, gli americani e i nordici in senso lato sono allevati alla resilience già da quando sono in fasce. Dovremo farlo anche noi. Iniziando da subito. Nell’immediato, comunque, la consapevolezza di avere maggiore impegno civile e senso comunitario dovrebbe indurci ad affrontare con maggiore autostima le sfide, non certo facili, di fronte a noi.

E la crescita inclusiva? In seno al Cnel, non solamente è in corso un lavoro con l’Istat per definire indicatori di benessere complementari a quelli della contabilità economica nazionale, ma si sta cercando di definire criteri di valutazione per la spesa pubblica atti a ri-orientarla nei confronti di chi è davvero in condizioni di bisogno. La prima strada è complessa, la seconda osteggiata da chi gode di piccoli privilegi.

Si possono fornire scorciatoie operative. In primo luogo, dare rilievo (nella comunicazione politica e pubblica) alla crescita o meno dei redditi e dei consumi della famiglia “mediana” più che del Pil o del Pil pro-capite – sarebbe un indicatore forse grossolano, ma eloquente dell’aumento o meno delle diseguaglianze. In secondo luogo, si potrebbe ampliare “l’indice del disagio” (misery index)elaborato negli anni Settanta da Arthur Okun (sommatoria di inflazione e disoccupazione) arricchendolo con il tasso di povertà e il coefficiente di Gini sulle disuguaglianze. Ne risulterebbe un indicatore abbastanza semplice ma eloquente per indicare dove la nave va e quali correzioni di rotta apportare.