Per cominciare, qualche numero. Il Pil giapponese è salito nel primo trimestre del 5,9%, assai di più delle già promettenti previsioni (4,2%): ha giocato un ruolo determinante l’accelerazione degli acquisti domestici prima dell’aumento dell’Iva. La Germania avanza a un tasso annuo dello 0,8%, migliore del previsto e in linea con gli obiettivo del governo. Segna il passo invece la Francia, invariata, per la disperazione dei piani di François Hollande. Nel frattempo il governo, impaurito dall’onda nazionalista di Marine Le Pen, ha approvato una legge che in pratica impone un visto pubblico a ogni acquisizione dell’estero.
Doccia fredda per il Portogallo, reduce dalla promozione di Bruxelles culminato nell’uscita dal programma di assistenza della Trojka. Nonostante la benedizione delle agenzie di rating e le previsioni degli eurocrati l’economia perde ancora colpi: -0,7% il Pil, assai peggio delle previsioni di un pur striminzito +0,1%,
Infine, l’Italia è tornata, brutta ripresa, in terreno negativo: -0,1%, dato che getta una pesante ipoteca sulle previsioni (meglio dire speranze) di una crescita tra lo 0,8 e l’1%, come da indicazioni governative. Il timido rialzo di fine anno (+0,1%) dopo nove trimestri negativi non ha così trovato conferma. A peggiorare la situazione, cresce la distanza con il resto dell’eurozona che mostra segnali di crescita dell’economia. Per non parlare del paragone con la Spagna +0,4%.
Insomma, i messaggi positivi in arrivo dalla Borsa, ove peraltro il Toro comincia a perdere colpi, o dal pianeta dei titoli di Stato, ove i Btp macinano nuovi record e il Tesoro fa il pieno in attesa di tempi meno propizi, non trovano conferma nel mondo dell’economia reale. Le previsioni sull’inflazione Ue, ritoccate al ribasso allo 0,9% per quest’anno, denunciano un crescente rischio deflazione.
Infine, il Bollettino economico della Bce, pur abbassando le stime sul tasso dei senza lavoro nell’Eurozona – all’11,8% nel 2014, all’11,5% nel 2015 e all’11% nel 2016 – lascia ben poche ragioni di consolazione: la ripresa attesa nell’Eurozona “non sarà abbastanza vivace da ridurre i tassi di disoccupazione in modo più consistente nei prossimi anni visto che le aziende prima di dare il via a nuove assunzioni preferiranno aumentare dapprima la produttività”. Intanto, “ci vorrà qualche tempo prima che si faccia sentire l’impatto delle riforme strutturali”. Ammesso che, finalmente, l’Italia passi dalle parole ai fatti.
Il quadro generale, a pochi giorni dal voto europeo, non lascia spazio a equivoci. Ci sono ben poche ragioni, per ora, per rallegrarsi dei risultati raggiunti sul fronte della difesa degli equilibri finanziari dell’eurozona, a partire dalla caduta degli spread: il fenomeno non ha prodotto alcun risultato apprezzabile sul fronte della ripresa del credito, soprattutto alle piccole e medie imprese, ma al contrario è stato reso possibile dalla brusca caduta della liquidità che ha accompagnato la frenata dei consumi nella cosiddetta periferia d’Europa.
Il risultato? Secondo le previsioni dell’Ocse, nel 2015 il rapporto debito/Pil dell’eurozona registrerà questi numeri: Spagna 109%, Irlanda 133%, Portogallo 141%, Italia 147%. Fanalino di coda la Grecia, 189%. Anche se questi paesi, oltre a vantare fabbisogni pubblici primari in attivo (al netto degli interessi), potranno godere per un lungo periodo di tassi bassi come quelli attuali, per stabilizzare il rapporto con il debito dovranno crescere almeno del 3% annuo. Anzi, se l’inflazione scivolerà verso lo zero, nuova minaccia per i debitori, per stabilizzare il rapporto debito/Pil per la Grecia sarà necessario un surplus primario al 7,5%, il 4,7% per l’Italia.
Accantoniamo i numeri. Quanto detto basta a dimostrare che la rotta attuale, nel lungo termine, non porta altro che a sbattere in qualche iceberg. Inquieta, in questa cornice, l’assenza di un dibattito politico europeo all’altezza dell’emergenza. Frau Angela Merkel, una volta bocciata la sua proposta di un ministro europeo con il potere di porre il veto sui bilanci troppo generosi dei paesi dell’area euro, si è ritirata in uno sdegnoso silenzio in attesa che i partner scendano a più miti consigli. Nel frattempo, la crisi ucraina ha spostato l’attenzione verso Est. A Bruxelles c’è chi prepara le valigie, mentre gli eurocrati aspettano, più con curiosità che paura, l’onda degli euroscettici per il dopo voto.
Ancora una volta, non ci resta che Mario Draghi che, secondo i segnali sempre più frequenti da Francoforte, può contare stavolta sulla solidarietà della Bundesbank, per una politica più espansiva. Cosa che non stupisce perché, al solito, la Germania si muove fuori tempo massimo, accettando a malincuore taglio dei tassi, politiche per l’euro debole e Quantitative easing quando la situazione è già fuori controllo, secondo meccanismi che, come dimostrano le rivelazioni di Tim Geithner, ex segretario al Tesoro Usa, o l’inchiesta del Financial Times sulla crisi dell’euro, sono sempre meno democratici e riflettono sempre meno un’idea politica d’Europa.
Speriamo che all’inizio di giugno Mario Draghi riesca nell’ennesimo miracolo, ovvero rilanciare il credito e mettere in atto misure in grado di scongiurare la deflazione Ma non facciamoci illusioni: anche se l’azione del banchiere centrale avrà ancora una volta successo, il rischio catastrofe non sarà evitato. Ci vuole la politica, tanta politica.