«L’Italia non ha bisogno di una nuova manovra correttiva, ma di una rinegoziazione del Fiscal compact che consenta al nostro Paese di tornare a investire». Lo afferma Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma e candidato di Scelta Europea per l’Italia Centrale alle elezioni del 25 maggio. Da diverse parti si torna a parlare di una nuova manovra dopo il dato negativo del Pil al -0,1% nel primo trimestre 2014, anche se lo stesso presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha smentito che ce ne sia bisogno.



In quale caso si renderebbe necessaria una manovra aggiuntiva?

In nessun caso. I dati inattesi sulla crescita italiana, che fanno sì che il Pil aumenti meno di quanto previsto all’interno del Documento di economia e finanza (+0,8%), e meno di quanto previsto dalla stessa Commissione Ue (+0,6%), non sono una ragione sufficiente per adottare una manovra. La vera domanda non è se vada introdotta una nuova manovra, perché la risposta è ovviamente no: ciò che dobbiamo chiederci è qualcosa di completamente diverso.



Che cosa dobbiamo domandarci?

Dobbiamo chiederci se possiamo ottenere una moratoria sul Fiscal compact fino a quando tornerà a splendere il sole sull’area europea. Una moratoria ci permetterebbe di generare quella crescita tale da produrre stabilità nei conti pubblici. Non si tratta di superare il 3% di deficit, l’Italia dovrebbe chiedere all’Europa di usare i suoi risparmi di spesa per una riduzione della tassazione, o come preferirei per un aumento degli investimenti pubblici. Portare adesso il deficit al livello dello 0% sarebbe un errore perché significherebbe soltanto più austerità.



Eppure l’aumento dello spread non rende necessario un intervento deciso?

La stampa e numerosi economisti, di fronte all’aumento dello spread, hanno parlato della necessità di un’altra manovra. La riterrei una soluzione non solo sbagliata ma anche ridicola, perché l’Europa non ci chiede questo. Gli spread sono saliti, come avviene sempre, perché non c’è crescita. Quando un debitore non cresce la banca si preoccupa, e la stessa cosa avviene per i governi. I mercati si sono impauriti perché hanno visto che l’Italia non sta facendo le politiche che nell’immediato possono generare crescita.

Che cosa si deve fare quindi?

Il Documento di economia e finanza (Def) afferma chiaramente che gli investimenti pubblici in Italia sono destinati da qui al 2018 a raggiungere il livello minimo storico dal Dopoguerra in poi, pari all’1,4% del Pil, meno del’1,6% previsto dal governo Letta. Non ci si deve quindi stupire se di fronte a questo scenario di restrizione della domanda pubblica, così importante in una recessione come questa, una delle principali ragioni del calo del Pil è che stanno crollando gli investimenti nel settore delle costruzioni. Attraverso il crollo degli investimenti pubblici si distrugge una parte fondamentale dell’economia italiana, quella del settore costruzioni, in cui tutte le piccole imprese stanno di fatto sparendo. Nella lettera che il presidente dell’Ance ha scritto a Expo si chiede perché nelle grandi gare d’appalto si mettano delle soglie di fatturato così alte che le piccole imprese spariscono.

 

Davvero la soluzione sono maggiori investimenti pubblici?

Il problema vero è che gare come quelle che fa Expo stanno sparendo loro stesse nel panorama del Paese. Il nostro governo ha deciso di rinunciare alla costruzione di un ponte per il futuro e di un patto generazionale dove gli anziani lasciano ai giovani delle infrastrutture su cui operare e avere successo nel mondo globalizzato. Gli imprenditori che operano su investimenti pubblici vanno all’estero o chiudono, e quindi non ci deve stupire se questi numeri sono in calo. Insieme agli investimenti pubblici crolla la quota di ricchezza nazionale che il governo destinerà agli stipendi pubblici, con un 9,2% del Pil che rappresenta il minimo storico anche per l’Europa. Anche questa è un’enorme miopia, perché gli stipendi pubblici non sono solo quelli dei burocrati, ma di tutto ciò che permette di competere in un mondo globalizzato.

 

(Pietro Vernizzi)