È stato piuttosto impressionante leggere della transizione sull’approvvigionamento energetico europeo, e in particolare dell’Italia che dai tempi di Enrico Mattei fa affari con la Russia. Il grande gasdotto che avrebbe aggirato l’Ucraina, il South Stream, al quale partecipava da anni attivamente Eni è, secondo l’uscente Paolo Scaroni, avvolto da un “futuro fosco”. Mentre dichiarava in televisione che le sanzioni contro la Russia potrebbero «inceppare le relazioni commerciali» tra Eni e Gazprom, poco dopo volava a Kiev per negoziare con il nuovo governo ucraino un modo di rivendergli quote di gas anche russo. Scontata l’ira della russa Gazprom, che già ha fatto tremare l’Ue per l’accordo firmato tra la slovacca Eustream e l’ucraina Naftogaz.
A questo, forse non casualmente, si aggiungono le cattive notizie per il congelamento di due ulteriori anni dello sfruttamento del grande giacimento di Kashagan in Kazakhstan, nel quale sono coinvolte oltre a Eni anche ExxonMobil, Royal Dutch Shell, Total, e la cinese Cnpc. Intanto, se da un lato l’approvvigionamento dall’Algeria sembra per ora essersi salvato da tensioni geopolitiche, dalla Libia continuano ad arrivare notizie inquietanti (intere aree del Paese sono fuori controllo e le milizie armate attaccano le istituzioni centrali).
Continuando le letture di queste ore, leggiamo che il ministro della Difesa Roberta Pinotti e il capo di Stato Maggiore della Difesa Luigi Binelli Mantelli, entrambi ospiti di un programma televisivo, hanno visioni divergenti sul futuro della difesa italiana. “Penso che una razionalizzazione, una revisione del programma (degli F35, ndr) sia fattibile: lo stanno facendo anche altri stati come l’Olanda”, ha detto il ministro; ma è opposta la posizione di Binelli Mantelli, secondo il quale “gli F35 saranno il futuro delle forze aeree per i prossimi 40-50 anni”, un futuro a cui “non c’è alternativa”.
L’immagine di un’Italia in cui regna una discreta confusione sugli obiettivi commerciali e strategici si rende ancor più opaca per le ricorrenti minacce del premier Renzi di “lasciare” se non si trova un accordo sulle riforme che lui ha proposto (riforma costituzionale del bicameralismo e riforma elettorale, ndr), ma anche per la violenza verbale della campagna elettorale europea di Berlusconi e Grillo, che non risparmiano attacchi diretti alle istituzioni (Napolitano, Grasso e Boldrini) e all’ordine giudiziario. Sul piano economico tutto è poco chiaro, dalle coperture reali della riduzione dell’Irpef (i famosi 80 euro, ndr) all’impatto del Fiscal compact (pareggio di bilancio e riduzione del debito pubblico, ndr).
Se l’Italia si avvita su stessa, i grandi movimenti continuano. Infatti, mentre l’Amministrazione Obama e l’Ue decidono quelle che l’americana Stratfor ha definito “un inasprimento inefficace delle sanzioni alla Russia” – secondo la fonte “coscientemente inutili”, esse servono solo a calmare i falchi democrats e i neocons repubblicani del Congresso che criticano veementemente la politica estera di Obama – la Russia ha concluso un accordo di cooperazione del Caspio con Iran e Turchia. Come ha scritto Maurizio Molinari su La Stampa, “l’impressione è che Putin e Rohani stiano gettando le basi di una cooperazione più vasta in Medio Oriente, che può coinvolgere anche settori strategici come quello della sicurezza”. Forse questo spiega anche il citato congelamento del giacimento di Kashagan in Kazakhstan, che avrà certe ripercussioni economiche sugli investimenti italiani.
Alzando ancora lo sguardo strategico, vediamo altri grandi movimenti. Il viaggio di Obama in Asia ha registrato lo stallo sul trattato di libero scambio (Tpp) con i paesi dell’Asean. È stato il Giappone a porre condizioni di reciprocità che i negoziatori americani non hanno potuto accettare. Quindi, il viaggio si è risolto nella riaffermazione del sostegno militare e strategico americano ai paesi alleati nel Mar cinese. Con abilità il premier giapponese Abe ha di fatto coinvolto gli Usa nella difesa delle disputate isolette Senkaku reclamate dalla Cina (entro il 2017 saranno dispiegati missili balistici Usa in Giappone). Intanto la Cina sembra essere piuttosto irritata. Come ha scritto l’agenzia Xinhua, “nonostante le ripetute smentite di Washington, la strategia americana di riequilibrio mostra un preciso calcolo di ingabbiare la Cina”. La stessa fonte descrive l’atteggiamento Usa come “una superpotenza sclerotica e miope che è prigioniera della sua storia recente fondata su una concezione confrontazionale del mondo”.
D’altra parte, la Russia ha ben capito che dopo la visita, la settimana scorsa, del direttore della Cia John Brennan a Kiev, ormai l’obiettivo reale americano non è più gestito dai politici e dai diplomatici. Il gioco si fa drammaticamente serio. L’obiettivo americano sarebbe niente di meno che un “cambio di regime” a Mosca. Questo spiegherebbe il motivo di aver incluso tra le persone soggette a sanzioni anche il potentissimo consigliere di Putin, Igor Sechin.
Se le sanzioni rischiano di essere inefficaci, la Russia sta rapidamente sviluppando una strategia per rendersi meno vulnerabile all’aggressione finanziaria Usa (accordi con Cina e India e quello del Caspio) e meno dipendente dal “cliente unico” europeo (nascerà una piattaforma di trading indipendente dai circuiti occidentali?). Quanto all’Ucraina, appare chiaro che per gli americani è usata come una testa di ponte per operazioni a più largo spettro per indebolire e isolare la Russia e i Brics, mentre per la Russia è una questione di principio e di rispetto della storia.
Sebbene nessuno voglia morire per l’Ucraina, un errore in questo tremendo gioco potrebbe far deflagrare un conflitto dalle proporzioni enormi, come ha detto il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. D’altra parte è sin dal XIX secolo che è nota l’importanza del controllo della massa continentale eurasiatica per dominare il mondo. Lo sanno gli americani, gli europei e i russi (nel 2010 Putin aveva offerto di creare accordi per costituire il più grande mercato da Lisbona a Vladivostock). Senza l’Europa, per ora, la Russia potrebbe concentrarsi sugli accordi con l’Asia orientale e centrale e l’India. Infatti, nel mese di maggio Putin si recherà in visita di Stato a Pechino – si dice per concludere il più grande accordo di fornitura energetica del mondo – e in India dove le elezioni potrebbero portare al potere Modi, un nazionalista hindu che dovrà rapidamente decidere tra l’amicizia americana e quella russa, oltre che sulle relazioni con la Cina.
In Asia Minore assistiamo a rivolgimenti importanti che stanno avvenendo dopo la caduta (voluta dalla Russia) del potente capo dei servizi segreti sauditi, principe Bandar. Con il suo sollevamento dall’incarico la linea sunnita-wahabita di sostegno ai “ribelli” in Siria e l’influenza sull’intero scacchiere islamico del Medio Oriente si è notevolmente affievolita. Finanche all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ggcc) si distanziano importanti paesi come il Qatar, l’Oman e il Bahrein. Questi ultimi partecipano attivamente agli sforzi per la reintegrazione dell’Iran nel sistema internazionale, anche offrendo la propria collaborazione come piazze finanziarie “sharia compliant” e indipendenti da Washington.
I risultati non tardano a manifestarsi: in Siria Assad guadagna terreno e terrà elezioni presidenziali per ricevere un nuovo incarico di sette anni il prossimo 3 giugno; in Palestina si ricompattano le componenti dello Stato – Hamas-Fatah – facendo svanire tutti gli sforzi diplomatici dell’Amministrazione Obama per una pace con Israele che ha rifiutato di sedersi al tavolo (evidente l’irritazione americana con Kerry che ha dichiarato che “Israele rischia di diventare un regime di apartheid”).
Nel Nord Africa stiamo assistendo impotenti e colpevolmente distratti alla rielezione obbligata di Boutelfika in Algeria (dove ha votato meno del 30% degli aventi diritto e l’opposizione è stata di fatto esclusa), all’insediamento del presidente Al Sisi in Egitto (mentre il suo regime condanna a morte centinaia di oppositori collegati ai Fratelli Musulmani del deposto presidente eletto Morsi, ancora detenuto), alla catastrofe in Libia e alla crescente pressione degli immigrati (si calcola nell’immediato almeno 800.000) che solcheranno quest’estate il Mediterraneo verso l’Italia e l’Ue.
Infine, l’Ue è in stallo. Mentre si alternano i sondaggi che vedono la crescita esponenziale degli astenuti (più del 50%) alle elezioni europee del 25 maggio, l’affermazione di partiti e movimenti nazionalisti, anti-euro o euroscettici, sul tavolo resta la difficile ricerca di candidati adatti a guidare le istituzioni comuni (Consiglio e Commissione). Chiunque siederà in quei posti dovrà scegliere una strategia comune per i 28 (mission impossibile) tra atlantismo e mondializzazione, cioè una formula che regga con Ttip, Russia e Cina (in gioco ci sono i grandi flussi finanziari).