Alle urne, alle urne. Dopo una campagna elettorale sguaiata e malandrina, ancor più che in passato, gli italiani si avvicinano a un voto che, a rigor di logica, dovrebbe avere connotati rivoluzionari. Nel giro di pochi anni l’Italia, da Paese europeista per antonomasia, è diventato, a detta dei sondaggi, il più ostile alla stessa esistenza dell’edificio comune. È facile imputare alla Germania piuttosto che alla nascita dell’euro buona parte dei nostri guai, così come una popolazione che invecchia e s’impoverisce tende a idealizzare il buon tempo andato, quando ogni o due tre anni una proverbiale svalutazione rimetteva le cose in regola. Certo, il risultato era un’inflazione a due cifre, ma le famiglie italiane, così innamorate del mattone, sapevano difendersi dal calo di valore della moneta grazie all’ascesa ininterrotta dei valori immobiliari.
Insomma, come confermano le statistiche, dal 1999 a oggi, l’Italia è andata peggiorando. Proprio in questi giorni la classifica dell’Imd di Losanna conferma che l’Italia perde colpi sul fronte della competitività: ormai il Bel Paese è al posto numero 46, scalzato da Spagna e Portogallo, che hanno guadagnato posizioni. E se all’inizio del decennio si poteva legare la nostra cattiva performance (comunque migliore di oggi) all’irruzione sulla scena dei Paesi emergenti, oggi il declino avviene nei confronti di nazioni che partono da posizioni più svantaggiate, a conferma di una coerenza che andrebbe esercitata in ben altri campi. Invece l’Italia, caso unico nell’Unione europea, ha sempre peggiorato la sua posizione, sia negli anni buoni (quelli del boom immobiliare in Spagna, ad esempio) che negli anni della grande crisi. Sia con i governi di centrosinistra che di centrodestra,
Ha pagato un alto prezzo, quasi cinque punti di Pil, per creare i fondi europei utilizzati per il sostegno delle banche greche, portoghesi, spagnole, irlandesi e cipriote. Ma non ha saputo sfruttare i fondi strutturali della Comunità. E così via. Nel giro di pochi anni il sentimento dominante si è rovesciato: se a fine anni Novanta Giuseppe Turani poteva intitolare un suo volume “Scappiamo in Europa”, obiettivo di una generazione affamata di democrazia e di buon governo, oggi lo slogan dominante è “Scappiamo dall’Europa”, matrigna ingrata.
Basta la crisi economica a spiegare questo cambiamento di umori? Probabilmente no. La campagna elettorale poteva essere l’occasione per riflettere su cosa non ha funzionato e su quel che si può e si deve cambiare. Al contrario, ha prevalso la tentazione di cavalcare un rancore che ricorda le nostalgie filoborboniche di certa parte del Sud, sia di destra che di sinistra, che via web ha alimentato un assurdo revisionismo storico, individuando nel Regno delle Due Sicilie una sorta di Paradiso perduto. Un’occasione perduta, insomma. Almeno per sfatare alcun luoghi comuni, Vediamone alcuni.
L’Italia ha compiuto un passo falso entrando nell’euro? Non è vero. In realtà, l’Italia non aveva alternative. Il Regno Unito, con una situazione della finanza pubblica sotto controllo e un’economia fortemente orientata sui servizi, non aveva convenienza a legarsi al carro dell’Europa a trazione tedesca, con forti vincoli alla libertà di manovra della City. Ma per l’Italia, con un debito pubblico enorme e crescente nel tempo, e da anni variamente legata a un sistema di cambi che ruotavano attorno al marco, l’ingresso nella moneta unica era una mossa quasi obbligata. “Se l’Italia avesse annunciato – scrive Luigi Zingales – di non volere entrare nell’euro, avremmo perso ulteriore credibilità e la spirale alti tassi-alti rendimenti ci avrebbe rapidamente portati a un’inflazione galoppante e a un default”.
L’Italia ha dato molto e non ha ricevuto nulla. Falso. In realtà, il calo dei tassi dall’avvio della zona euro ha regalato all’Italia un tesoretto immenso: dai 114 miliardi di euro in interessi pagati ai tempi della vecchia lira, si è passati a 67 miliardi. Per valutare la novità basti il paragone con il Belgio, Paese fortemente indebitato il cui rapporto debito/Pil era simile ai numeri italiani. Ma il Belgio, al centro di una crisi istituzionale che ne ha messo seriamente a rischio l’esistenza, ha avuto la “fortuna” di non avere un governo con una piena investitura politica. Per questo Bruxelles ha adottato una formula meccanica: la spesa pubblica non poteva crescere più del Pil, il frutto della pressione fiscale (per la parte superiore al Pil) doveva essere girato meccanicamente al fondo ammortamento del debito. In questo modo, il Belgio ha abbassato sotto il 100% il rapporto debito/Pil e ha goduto di condizioni eccezionalmente favorevoli sui mercati del debito. Se l’Italia avesse applicato la stessa ricetta, nel 2008 il rapporto debito/Pil sarebbe stato inferiore all’80%. Purtroppo le cose sono andate diversamente. Complice la riforma costituzionale del Titolo V, la spesa pubblica è esplosa, con un accento particolare sulla periferia. L’Italia si è mangiata il dividendo da euro, a tutto danno dei giovani e delle generazioni future.
Ci sono stati gravi errori da parte dei padri dell’euro? Vero. La scommessa di Carlo Azeglio Ciampi & C. era di far digerire la rivoluzione in maniera indolore e silenziosa, quasi che la forza delle cose avrebbe travolto le resistenze. Ma la politica di rado obbedisce alla forza dei lumi. Soprattutto se viene meno la forza del grande obiettivo politico. L’Italia entra nell’euro con una somma di promesse nei confronti dei propri cittadini (vedi le pensioni calcolate sul retributivo pre-riforma) e dei detentori del debito pubblico. Nel momento decisivo è mancata la spinta alle riforme del sistema necessarie per prosperare in Europa. Oggi la domanda si ripropone in condizioni più difficili.
Si può prosperare di nuovo grazie alla svalutazione? Assolutamente no. La recente inchiesta delFinancial Times ha attestato che le esercitazioni del 2011 sull’uscita dall’euro hanno dimostrato come i costi di un divorzio siano largamente superiori ai benefici. Senza dimenticare che, per produrre uno spazzolino, oggi una multinazionale assembla componenti in arrivo da otto nazioni. È ridicolo pensare che, all’interno di una divisione dell’economia in chiave globale, sia possibile giocare con profitto l’arma del cambio. L’uscita dalla crisi passa semmai da riforme interne, in linea con le best practices internazionali. Le scorciatoie sono dei furbi, categoria che di rado va a braccetto con l’intelligenza.